L’angelo della storia

Ma se io fossi vissuto in Germania ai tempi del nazismo avrei contrastato Hitler o avrei seguito la maggioranza?

È una domanda assurda perché è impossibile rispondervi. Eppure è bene tenerla presente.
Perché ci dice l’importanza di studiare la storia per fare memoria degli avvenimenti, per il rispetto che si deve alle vittime e per il rispetto che dobbiamo a noi stessi nella costruzione di una società più umana.
La statua imbrattata di Montanelli è frutto di un cortocircuito tra la storia in gran parte ignorata da noi stessi (le leggi razziali italiane e le sue conseguenze sulle colonie) e la spinta a manifestare solidarietà alle vittime della storia di ieri e di oggi.

Il passato non è muore mai. E non è nemmeno passato” William Faulkner

Se ha poco senso imbrattare e distruggere le statue (di cui si può democraticamente ottenere la rimozione) inseguendo una furia iconoclasta che finisce per dividere il mondo in buoni e cattivi, la sfida è piuttosto quella di provare a declinare diversamente la pace e la giustizia come capacità di costruire una cultura del conflitto in grado di evitarne le forme di degenerazione violenta, di far tesoro del passato e di descrivere il presente.
Ad esempio riconoscendo che la convivenza tra popoli e culture diverse non è impossibile e se lo è non può esserlo solo quando un popolo regni su altri (come pensava Montanelli).

Nella tesi IX che è al centro delle sue riflessioni sul concetto di storia Walter Benjamin scrive:

«C’è un quadro di Klee che s’intitola “Angelus Novus”. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta»

Paul Klee, Angelus Novus, 1920

Un mondo riconciliato, secondo Benjamin, è anzitutto un presente che ha fatto i conti col passato, ricomponendo i pezzi infranti dell’umanità con l’oro, secondo la tecnica giapponese kintsugi, affinché la memoria delle ferite non sia cancellata. Così potrà forse essere raggiunto quel nuovo umanesimo che consentirà di dire basta alle ingiustizie.

Conoscere e comprendere la storia è dunque la parola chiave per costruire un umanesimo che attraverso azioni e linguaggio muovi renda giustizia alle vittime della storia, di ieri e di oggi.

Sulla violenza

La rabbia non è affatto una reazione automatica alla miseria e alla sofferenza in quanto tali. Soltanto dove c’è ragione di sospettare che le condizioni potrebbero cambiare e non cambiano scatta la rabbia… soltanto quando il nostro senso di giustizia è offeso reagiamo con rabbia… in certe circostanze la violenza è l’unico modo di rimettere a posto la bilancia della giustizia…
Che questi atti, in cui gli uomini prendono la legge nelle proprie mani in nome della giustizia, siano in conflitto con le costituzioni delle comunità civili è innegabile; ma il loro carattere anti politico non vuol dire che siamo inumane o puramente emozionali…
Strappare la maschera dell’ipocrisia dalla faccia del nemico, smascherare lui e le sue astute macchinazioni e manipolazioni che gli permettono di esercitare il potere senza far ricorso a mezzi violenti, cioè provocare un’azione anche a rischio di essere annientati affinché la verità possa emergere – queste sono ancora alcune delle motivazioni più forti presenti nella violenza di oggi…
La violenza non promuove cause ma può servire a drammatizzare le ingiustizie e a sottoporle all’attenzione dell’opinione pubblica.
Il pericolo della violenza sarà sempre quello che i mezzi sopraffacciano i fini. Se gli obiettivi non sono raggiunti rapidamente, il risultato non sarà la semplice sconfitta ma l’introduzione della violenza in tutto l’insieme delle politica. L’azione è irreversibile e il ritorno allo status quo dopo la sconfitta improbabile. La pratica della violenza, come ogni azione, cambia il mondo, ma il cambiamento più probabile è verso un mondo più violento
”.
Hanna Arendt, Sulla violenza, 1969 #blacklivesmatter

Comprendere

Da “Testimoni del Vangelo”, Qiqajon

“Come si fa ad amare ciò che non si comprende e come si fa a comprendere ciò che non si ama?”
Queste domande hanno un valore universale che trascende l’ambito di fede. In qualsiasi contesto, la comprensione è legata all’amore e viceversa.

Quando diciamo “voglio comprendere” stiamo dicendo anche “voglio amare”. “Comprendere”, come suggerisce la parola stessa, non si risolve nel confronto con se stessi ma riguarda il rapporto con gli altri: per questo non può mai dirsi definitivamente acquisito, né frutto di un percorso di autonomo apprendimento.

Non si finisce mai di imparare perché non si smette mai di comprendere l’altro e perché gli altri sono una componente essenziale nella nostra comprensione del mondo, di ciò che siamo e di ciò che facciamo. Per questo anche la comprensione di noi stessi, degli altri e del mondo procede tra alti e bassi, cadute e nuovi inizi, parallelamente alla nostra capacità di amare.

Nella fede la dinamica è la stessa. Gesù rimprovera spesso i discepoli perché incapaci di comprendere. Solo dopo la morte, con la sua Resurrezione, essi capiranno il significato delle scritture rileggendo la sua vita dall’inizio, il suo dono d’amore. E lo capiranno nella misura in cui sentiranno Gesù stesso ancora vivo e presente in mezzo a loro, corrispondendo finalmente a quell’amore che gli ha fatto ardere il cuore, vincendo definitivamente la morte.

Quarentena e Quaresima

Ricordati che sei polvere e polvere ritornerai”. 
È una frase che dicevamo spesso da ragazzi a mo’ di battuta. Era difficile se non impossibile comprenderne il significato per la mente di un adolescente. Finché la scomparsa improvvisa di una persona cara non ne svelò improvvisamente il significato. È la verità sulla nostra vita: siamo davvero polvere, deboli e fragili. 
Verità che cerchiamo di fuggire in ogni modo ma che torna costante nella vita di ciascuno, con modalità quasi sempre inaspettate. 

Entriamo nella Quaresima 2020, tempo di digiuno e astinenza, con le immagini degli scaffali dei supermercati svuotati dalla paura irrazionale e collettiva di fronte ad una minaccia dalla quale non sappiamo come difenderci. Timorosi forse di affrontare una quarantena senza cibo. 
Alcuni falsi profeti si sono affrettati a spiegarci che questo nuovo virus è frutto del castigo divino, contribuendo a creare allarmismo. Ma non è così. 

Nella sapienza della Chiesa il gesto della cenere sul capo nel Mercoledì de Le Ceneri, insieme al digiuno, non è una macabra rappresentazione anticipata dell’inevitabile dipartita ma un invito ad assumere questa fragilità, come l’ha assunta Gesù stesso, per viverla fino in fondo, senza meschinità, nell’amore. Perché alla sera della nostra vita saremo giudicati proprio sull’amore, sui legami che danno senso e significato all’esistenza terrena. 

Questa bellissima frase di Pedro Arrupe, sacerdote che spese la propria vita nell’amore per Dio e per i poveri, sintetizza poeticamente il senso della vita e può aiutarci a vivere una vita che non sia una quarantena isolata e impaurita, ma una Quaresima ricca di frutti in attesa della Pasqua di Resurrezione. 

Ciò di cui tu ti innamori cattura la tua immaginazione e finisce per lasciare la sua orma su tutto quanto. Sarà quello che decide che cosa ti farà alzare dal letto la mattina, cosa farai nei tuoi tramonti, come trascorrerai i tuoi fine settimana, quello che leggi, quello che sai, quello che ti spezza il cuore e quello che ti travolge di gioia e gratitudine. Innamorati! Rimani nell’amore! Tutto sarà diverso.

Eros redento

Nel monologo di Benigni a Sanremo sul Cantico dei Cantici, il regista toscano costruisce quello che lui definisce un trailer sulla “canzone delle canzoni” ovvero una breve presentazione di quel piccolo libretto finito quasi per sbaglio nella Bibbia, in cui si canta l’amore carnale tra uomo e donna, senza mai nominare Dio.

Molti biblisti sono stati chiamati in causa e hanno detto la loro, commentando più o meno favorevolmente l’intervento del Comico: Lidia Maggi, Rosanna Virgili, Enzo Bianchi, Luigino Bruni.

Chi lo ha valutato positivamente si è concentrato sull’importanza che un intervento di questo tipo, nella TV pubblica e nel momento di massimo ascolto, ha apportato alla conoscenza di un testo sicuramente originale e poco conosciuto delle Sacre Scritture.

I detrattori hanno invece sottolineato l’assenza o quasi la contrapposizione che l’attore ha posto tra la lettura letterale del testo che parla esclusivamente dell’amore umano, carnale e la lettura allegorica dell’amore spirituale che ne ha giustificato l’inserimento nel canone biblico.

Di certo la mancanza vi è stata e su questo lo show di Benigni è sembrato carente. Nel Cantico dei Cantici infatti non è possibile scindere le due interpretazioni e se è vero che, come scrive Ceronetti, “la lettura erotica del Cantico è la più sicura“, essa tuttavia “non ha senso se il letto degli amori non è rischiarato da una piccola lampada che rischiari, attraverso quei trasparenti amori, il Nascosto” (Il Cantico dei Cantici, a cura di G. Ceronetti, Adelphi, pag. 104).

L’errore di Benigni è stato quello di aver insistito troppo sulla parafrasi di un sogno erotico, facendo perdere al testo gli aspetti nascosti della poesia, rendendo oscena sul palco dell’Ariston (letteralmente ob scenus, fuori luogo) l’intimità dell’amore carnale. Come scrivi Jean Bastaire “Oggi abbiamo denudato il sesso ma, così facendo, ne abbiamo consacrato la supremazia. Ciò che procurava un delizioso fremito di terrore era la trasgressione; adesso abbiamo eretto la trasgressione a metodo di conoscenza.” (J. Bastaire, Eros Redento, Qiqajon, 2000).

Tutto ciò del resto non sarebbe successo se negli ultimi secoli non avesse prevalso all’interno del cristianesimo una concezione di disprezzo del corpo che ha ridotto la sessualità alla sua funzione puramente genitale, sviluppando una dottrina che esaltava la castrazione e le umiliazioni corporali, provocando nel XX secolo la spinta verso una effimera ed illusoria liberazione.

Tra la sessualità negata e la sessualità idolatrata sta dunque lo sforzo di inserire la sessualità all’interno di un disegno più grande, in cui l’erotismo non è negato, né finalizzato a se stesso ma è mezzo per innalzare l’essere verso il suo Creatore.

Tutto ciò nel Cantico dei Cantici passa attraverso la rivelazione di ciò che di nascosto ovvero di divino c’è tra i due amanti, divinità che, come ha scritto Luciano Manicardi, non consiste tanto nella sostituzione di uno dei due amanti con Dio o nel reputare divinizzato l’amante: ciò che è divino, nel Cantico, è ciò che intercorre fra gli amanti, è la loro relazione.

È proprio verso l’incontro che tende il desiderio degli amanti verso la realizzazione dell’unione che chiude lo spazio tra i due corpi e si fa dono reciproco e accoglienza dell’altro. È la conoscenza in senso biblico che consiste propria nell’avere accesso diretto ad una realtà esterna.

“Beato chi prova per Dio un desiderio così grande quanto quello di un folle innamorato per la propria amata. Colui che davvero ama si raffigura continuamente il volto della persona amata e lo guarda con tale gioia nel pensiero che neppure il sonno è capace di distoglierlo da quell’oggetto e il suo affetto glielo fa vedere in sogno. Nelle realtà corporali avviene lo stesso che in quelle incorporee” scrive Giovanni Climaco ne La Scala del Paradiso.

Questa uguaglianza fa sì che come l’amore divino è espresso da un desiderio insaziabile anche l’amore sessuale sia di per sé insufficiente a se stesso. Ecco il motivo per cui il Cantico dei Cantici pur narrando in maniera esplicita l’amore tra uomo e donna è al tempo stesso sogno di un amore consumato e al tempo stesso a rischio di svanire e comunque mai del tutto posseduto.

È proprio in questa mancanza che si apertura all’altro che c’è spazio per l’altro e per Dio.

Non a caso il Santo dei santi del Tempio di Gerusalemme è una stanza vuota, uno spazio non occupato, traduzione architettonica dell’uomo come desiderio, vuoto attivo che deve essere riempito. L’uomo come essere di mancanza è Dio stesso che può abitare questo spazio in virtù di questo vuoto che nel tempio racconta questa mancanza. Se non ci fosse questa cavità desiderante Dio non potrebbe visitare l’uomo.

Nel Nuovo Testamento questa cavità è rappresentata dalla tomba vuota del risorto. Lo spazio esistenziale della nostre vite è simile a quel vuoto. E in questa ottica la sessualità, l’eros è pienamente recuperato alla vita cristiana perché redento, visitato dalla presenza del Signore, con il quale l’uomo si fa con-creatore.

Nei panni dell’altro

A me “Tolo Tolo” è piaciuto parecchio. Non è un film pro o contro l’immigrazione. Zalone ne ha per tutti, soprattutto per noi italiani ma politicamente la sinistra non ne esce meglio della destra. È sicuramente un manifesto contro il razzismo e su quanto faccia male il pregiudizio. È un trattato di sociologia su vizi e fissazioni italiche. È talmente tante cose che la cosa migliore che si può fare è vederlo e farsi un’idea. Perché “Tolo Tolo” non ha nulla da invidiare a tanti altri film che hanno fatto la storia della commedia italiana.

In “Tolo Tolo” non si ride meno, si ride a condizioni diverse: se vogliamo giocare con le parole potremmo dire che “Tolo Tolo” è sicuramente diverso dagli altri film di Luca Medici, ma non meno divertente. Si ride non già del film, come nei precedenti, ma nel film ovvero a condizione di mettersi nei panni di Checco, un “Idiota” al rovescio, un uomo insensibile a tutto tranne che al proprio ego e alle creme di bellezza, un Forrest Gump de’ noialtri alle prese con il tema mondiale dell’immigrazione.

L’azzardo o il coraggio, per quanto mi riguarda direi il merito di “Tolo Tolo” è di aver raccontato un tema scottante e divisivo, l’immigrazione, attraverso la storia di un personaggio immigrato “a sua insaputa”, (talmente egoista da risultare negletto alla sua stessa famiglia) provocando un cortocircuito nell’animo dello spettatore che non può lasciare indifferenti. Checco Zalone l’egoista, l’uomo per se stesso, ci porta “in his shoes”, come dicono gli inglesi, nei panni dell’altro per antonomasia: lo straniero. Se c’è una morale nel film non può che essere: cari italiani, smettiamola di guardarci allo specchio e cominciamo a guardarci dentro. Chapeau Checco!

Live and don’t let leave

“Esiste un rimedio che… in pochi anni renderebbe tutta l’Europa… libera e … felice. Esso consiste nella ricostruzione della famiglia dei popoli europei, o in quanto più di essa riusciamo a ricostruire, e nel dotarla di una struttura che le permetta di vivere in pace, in sicurezza ed in libertà. Dobbiamo costruire una sorta di Stati Uniti d’Europa.”

Sir Winston Churchill

Queste parole furono pronunciate a Zurigo nel 1946, un anno dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando comincia a farsi strada l’idea che sia necessario debellare tutti i nazionalismi europei per scongiurare i pericoli derivanti dai conflitti.

Dicembre 2019. Boris Johnson vince le elezioni e il Regno Unito conferma la sua intenzione di uscire dall’Unione Europea. Tra i sovranisti c’è soddisfazione perché vedono in Brexit l’inizio della fine dell’Europa unita; ma anche tra alcuni europeisti c’è compiaciuta rassegnazione per l’uscita ormai inevitabile dall’UE di uno Stato che, a dispetto delle parole di Churchill, non ne ha mai fatto parte del tutto.

Personalmente sono dispiaciuto per la scelta del popolo britannico di andare per la propria strada.

Continuo a pensare che gli Stati Uniti d’Europa siano il sogno politico più grande che l’umanità abbia mai avuto e che smettere di crederci non renda le nostre vite migliori.

Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo

Ragionando sulle sardine da qualche giorno, non riuscivo a definire il fenomeno. Stasera un post polemico mi ha riportato in testa il famoso verso finale di una poesia. In “Non chiederci la parola”, Eugenio Montale contrappone la figura dell’uomo che se ne va sicuro con le proprie certezze, come un uomo al sole che non si preoccupa di proiettare la sua ombra su un muro in rovina, all’immagine di uomo fragile, dubbioso, incerto, che sa soltanto chi non vuole essere, a chi non vuole assomigliare.

Mi è sembrata perfetta per descrivere la contrapposizione tra la sicumera del leader leghista (che proietta la sua paurosa ombra su un’Italia scalcinata) e per spiegare come lui e i suoi elettori, critici delle sardine, non comprendano coloro che scendono in piazza, senza simboli e senza bandiere, solo per dire, oggi, chi non sono e a chi non intendono aderire.

Tutto ciò è poco per un’alternativa politica ma del resto non è questo il compito di quelle piazze. Che indicano invece la disponibilità di un popolo pronto a spendersi per un modo altro di essere e di fare politica.

***

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Eugenio Montale, Non chiederci la Parola, Ossi di Seppia, 1925

Venezia

Chi non vorrebbe che il cambiamento climatico fosse solo un’invenzione?

Chi non soffre a vedere Venezia e Matera distrutte dall’acqua, la foresta amazzonica che brucia, gli elefanti africani che muoiono dal caldo e dalla siccità?

Per questo sentiamo un piccolo sollievo ogni volta che qualcuno ci dice che il cambiamento climatico è una bufala.

Eppure quel breve sollievo sparisce presto, non appena torniamo nella realtà. Perché se farsi aria con un foglio di carta non manda via la calura, così credere a chi dice che il cambiamento climatico non è reale, non ci salverà.

Che fare, dunque? Cominciamo dalle piccole cose, dalla cura dell’ambiente in cui viviamo, da una maggiore consapevolezza per il nostro comportamento sociale, e dai gesti quotidiani di attenzione per ciò che ci circonda. Il resto verrà di conseguenza.

La visita in carcere

La visita di un politico all’interno degli Istituti penitenziari è sempre motivo di riflessione e più spesso di polemica nell’opinione pubblica italiana.

Ciò può essere spiegato con il rischio che la visita diventi oggetto di strumentalizzazione da parte del politico stesso o i dei suoi detrattori e avversari politici. A questo si aggiunge che nell’Italia di oggi, dove il rancore e la rabbia sembrano avere una predominanza assoluta nel dibattito pubblico e la parola d’ordine è “gettateli in carcere e buttate la chiave”, entrare in un istituto di pena è sicuramente “rischioso” per un politico.

È opportuno tuttavia ricordare che il carcere, in un sistema democratico, non è avulso alle regole ed ai principi della democrazia, per cui gli istituti di pena non possono ledere la dignità sia di chi ci vive, per esservi costretto dalla legge, sia di chi ci lavora. La pena inflitta ai detenuti non ha solo finalità punitive ma dovrebbe essere orientata al recupero nella società di chi è sottoposto alla sanzione penale.

A questo si aggiunge il fatto che l’uomo e il politico cristiano, consapevole della chiamata ad essere segno di contraddizione nel mondo, non può ignorare che la visita ai carcerati è una delle 7 opere di misericordia che contraddistinguono il suo stare in mezzo agli uomini. Ricordarsi di chi vive la vergogna del carcere è richiesto al cristiano in quanto è Gesù stesso ad essersi identificato in loro (in Matteo 25). Anche San Paolo nella lettera agli Ebrei solleciterà la Comunità dei credenti a non dimenticarsi dei carcerati, “come foste loro compagni di carcere” (Eb 13,3).

Ecco quindi che visitare i carcerati, in una logica inclusiva, non può significare dimenticarsi delle condizioni in cui si vive nel carcere e del necessario supporto di cui avrebbe bisogno chiunque sia al suo interno: i detenuti ma anche i loro custodi ovvero il personale della amministrazione e polizia penitenziaria.

Al doveroso ringraziamento che deve andare a questi ultimi per il faticoso e prezioso lavoro svolto, non può che affiancarsi una parola di speranza per i detenuti. L’umanità verso gli ultimi, tra cui i carcerati, non è buonismo ma risponde a quella profondità che solo il bene radicale ha. Come ci ricorda Arendt, infatti, il male può essere esteso e diffuso ma mai radicale poiché se vi cerchiamo il pensiero rimaniamo frustrati dall’impossibilità di trovare una risposta. Questa è la “banalità” del male.

Il bene è invece radicale perché anche di fronte all’atto maligno non si arresta, sa guardare in profondità il cuore dell’uomo, in cui albergano tanto i buoni quanto i cattivi sentimenti, e vi sa scorgere una possibilità di redenzione.

A fare la differenza è dunque molto spesso una questione di sguardi. Conta il modo in cui guardiamo: è il nostro occhio, che nel linguaggio biblico non a caso è in stretto rapporto col cuore, sede delle decisioni, a dare luce o a portare notte. È il nostro sguardo che può trasformare il carcere in luogo d’inferno oppure in luogo di speranza.

Mentre si rimedia agli sbagli del passato, non si può cancellare la speranza nel futuro. L’ergastolo non è la soluzione dei problemi – lo ripeto: l’ergastolo non è la soluzione dei problemi -, ma un problema da risolvere. Perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società. Mai privare del diritto di ricominciare!Papa Francesco, discorso alla Polizia penitenziaria, 14 settembre 2019.

Visitare il carcere rappresenta dunque un primario esercizio di umanità e di attenzione per la tenuta sociale e democratica della convivenza tra gli uomini. Non è un caso che le condizioni delle carceri in Italia siano in più circostanze tirate in causa per l’alto livello dei suicidi tra i detenuti ma anche tra i poliziotti della Penitenziaria; e poi per il sovraffollamento o per taluni tipo di pena che escludono a prescindere ogni percorso rieducativo. Sono tutti aspetti, che al di là delle visite di circostanza del politico di turno, richiederebbero maggiore attenzione da parte delle istituzioni poiché è anche da come si vive in carcere, dove vivono gli ultimi tra gli ultimi, che si misura il nostro livello di civiltà.