La retorica dell’apocalisse

La retorica dell’apocalisse è un problema perché incastra le persone in un angolo, addossa loro responsabilità troppo pesanti e non tutte giuste da accollare ai singoli, così o il cittadino si mette buono buono nell’angolo e si ascolta la predica, paralizzato dagli indici puntati, oppure appena può si scrolla tutto da dosso e addio. Oltretutto, che si voglia o no, la retorica dell’apocalisse non è scientifica e può capitare – come è capitato, basta guardare l’esempio della pandemia – che all’inizio vengano messe in atto misure estreme e inutili, o invocato il castigo divino, come molti intellettuali alla Montanelli dissero al tempo dell’Aids. Far fuori la retorica dell’apocalisse significa usare la logica per fare spazio all’economia, trovare lo spazio utile e proficuo per le buone soluzioni, come i vaccini. Contro la fine del mondo significa che sì certo, ci dobbiamo pensare eccome, con inquietudine ma senza toni isterici, con serietà e lungimiranza, e abituarci a maneggiare più soluzioni e più strumenti. Perché ci sono. Ci sono in agricoltura, nel campo energetico, nelle fabbriche e per i nostri comportamenti quotidiani, ma purtroppo la retorica dell’apocalisse non ci permette di leggere con animo sereno e logico e razionale i nuovi strumenti, per analizzarli e misurarne gli effetti. E ci paralizza col noto ritornello: è tutto un magna magna. Ti fa sentire o peccatore che invoca lo Spirito santo o al contrario uno che più puro non si può. In entrambi i casi indossi inutili vestiti da prima comunione con cero annesso a simboleggiare la lotta contro il demonio. Perché la retorica dell’apocalisse si basa sulla proclamazione della fine del mondo dopodomani, anzi, visti i toni, spera anche in una catastrofe mondiale, che almeno si muoia tutti insieme sprofondando quando invece, memori della nostra storia evolutiva, ce ne andremo in silenzio, uno dopo l’altro, insomma niente di speciale o da poter raccontare in un film.

Antonio Pascale, Il Foglio, 22 aprile 2022

Condivido questa riflessione dello scrittore e autore Antonio Pascale, al tempo stesso, non vorrei che questo isterismo finisca per svilire il messaggio, razionalissimo, che una lettura attenta e soprattutto “scientifica” attribuisce all’apocalisse, l’ultimo libro del Nuovo Testamento.

Secondo Girard, antropologo francese, le scritture giudaico cristiane ed il vangelo in particolare, hanno avuto il merito di aver svelato il meccanismo mimetico violento alla base di ogni società umana. In questo contesto l’apocalisse (che letteralmente significa “rivelazione”) avrebbe il senso di disvelare, appunto, come questo meccanismo mimetico porti la violenza dell’uomo contro l’uomo all’esito della distruzione totale dell’umanità. E’ proprio questa consapevolezza che, secondo Girard, lungi dal favorire l’isterismo irrazionale da “fine dei tempi”, dovrebbe indurci a ragionare verso una concezione nuova dei rapporti umani, finalizzata a quella ricerca della felicità di cui parla Pascale al termine dell’articolo.

Pensiamoci, siamo otto miliardi, se riusciremo a essere logici, la mia idea insieme alla tua – messa alla prova e misurata – moltiplicherà l’entusiasmo e la felicità. Perché la felicità non sta nella purezza (che per essere valida necessita dell’impurezza infernale), ma nella ricerca di una soluzione di compromesso che sappia fare i conti con le scorie, i rimasugli che la vita produce. E infine, ma questo è un pensiero intimo, la felicità non è nella vita ma in una morte sana, senza dolore, con due o tre ricordi che ancora scintillano e illuminano quelle volte che siamo stati uniti e seri e motivati, e non allarmati, ansiosi e isterici da essere, insomma, già morti allora.

Tutto questo per dire che, attraverso una lettura “intelligente” dei testi biblici, si può desumere quella economia dei comportamenti umani ormai imprescindibile per affrontare le sfide globali, senza ricette precostituite. Il richiamo quindi all’apocalisse, per rispondere a Pascale, ha due alternative: la prima è quella che coincide con l’atteggiamento irrazionale di chi predica la fine del mondo, senza fare nulla; la seconda è quella di prendere atto che, di fronte alla possibilità, ormai concreta, di distruggere se stessi (con la guerra, piuttosto che con l’inquinamento), gli uomini possono acquisire la necessaria consapevolezza per comportarsi, razionalmente, di conseguenza, abbracciando l’unica alternativa utile: quella di cooperare al bene, al di là di ogni divisione (di nazione, di razza, di religione, ecc.).

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