L’era della fraternità

Il motto della Rivoluzione francese, “libertè, egalitè, fraternitè“, è ancora da attuare pienamente. Libertà, uguaglianza e fraternità sono termini complementari eppure non si integrano automaticamente tra loro. Tanta strada è stata fatta in tema di libertà e uguaglianza, negli ultimi due secoli, ma molto di più c’è da fare per realizzare la fraternità. Perché? 

C’entra l’ambiguità del termine che è stato storicamente utilizzato in senso escludente, sia in ambito religioso che laico: sono fratelli i miei correligionari o i miei concittadini, gli altri sono stranieri.

Ciò ha fatto sì che l’attuazione della fraternità, intrappolata all’interno dei confini della propria fede o della Patria/Nazione, sia rimasta indietro nelle scena politica degli ultimi duecento anni mentre libertà e uguaglianza si rendevano protagoniste di una costante progressione dei diritti, individuali e sociali, ma anche di potenti contraddizioni. Senza la fraternità, la libertà diventa incomunicabilità e separatezza, trasforma la società in monadi incapaci di comunicare. Senza la fraternità, l’uguaglianza si trasforma in collettivismo ed egalitarismo. 

L’attuale stato del mondo globalizzato induce l’umanità a prendere coscienza del fatto che può essere solo la fraternità, declinata in senso universale, a completare di significato i principi di libertà e uguaglianza.  A rendere possibile questa declinazione, come suggerisce il sociologo francese Edgar Morin, non può che essere la comprensione di essere un’unica comunità di destino. È la fragilità e la mortalità dell’umanità in quanto tale a rendere possibile l’accesso nell’era della fraternità. Le crisi mondiali in atto all’inizio del Terzo millennio testimoniano che “nessuno si salva da solo”: la crisi della pandemia sanitaria, il cambiamento climatico, le minacce nucleari che tornano alla ribalta all’interno dei molti conflitti locali sono tutti elementi di un unico quadro.

Ma se libertà e uguaglianza possono essere assicurate o imposte per legge, così non è per la fraternità sebbene non manchino riferimenti che possano inquadrare questo principio all’interno di un percorso giuridico. 

Il primo passo verso questa nuova tappa dell’era umana, verso il riconoscimento della fraternità universale, è stato fatto all’indomani della Seconda Guerra Mondiale quando il mondo, ancora scioccato dalle conseguenza del conflitto mondiale, dalle atrocità del genocidio e dai rischi di una escalation atomica, ha assunto il solenne impegno che apre la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, siglata nel dicembre del 1948: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

La formulazione della dichiarazione, come risulta dal preambolo, non è la fotografia di un ordine già conseguito ma indica un ideale da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le nazioni. Ciò implica che l’assunzione in concreto del principio di fraternità, che vada oltre le mere petizioni di principio, porti con sé un impegno di responsabilità verso l’altro. Ma in quale misura questa responsabilità si può tradurre in vincolo giuridico, in un rapporto che diventa obbligo di intervenire a favore dell’altro, limitando, in un certo senso, la mia libertà?

E’ la stessa dichiarazione universale ONU a fornire la risposta laddove, operando un collegamento indiretto con l’art. 1, così recita all’art. 29, comma 1: “Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità.

Questo collegamento sta ad indicare che nella misura in cui si riconosce il principio di fraternità tra tutti gli esseri umani sussiste anche un dovere in capo a ciascuno nei confronti della comunità, in quanto il pieno sviluppo della persona avviene attraverso la relazione con gli altri esseri umani.

A questo punto occorre considerare come, in ambito giuridico, si è sviluppato il discorso attorno alla natura umana e all’uomo in quanto “animale sociale”. Sono due le concezioni che hanno dominato negli ultimi secoli, presenti già nella storia del pensiero ma declinate nel mondo giuridico, in età moderna, da due illustri filosofi e pensatori.

La prima è risalente al filosofo britannico Thomas Hobbes (vissuto nel XVII secolo, in corrispondenza con la nascita degli Stati nazionali), fondatore del positivismo giuridico.

Egli nella sua opera principale, il Leviatano (1651), definisce lo stato di natura in cui vivono gli uomini come “bellum omnia contra omnes”, uno stato di guerra permanente e universale: uno stato in cui, non esistendo alcuna legge, ogni individuo verrebbe mosso dal suo più intimo istinto e cercherebbe di danneggiare gli altri e di eliminare chiunque sia di ostacolo al soddisfacimento dei propri desideri. Poiché solo la legge può distinguere torto e ragione, in sua assenza esisterebbe solo il diritto di ciascuno su ogni cosa (anche sulla vita altrui). Il prossimo sarebbe visto come un nemico e si vivrebbe una conflittualità perenne.

Per superare questo stato di natura discende la necessità di associarsi, di creare un legame sociale che ristabilisca l’ordine attraverso l’attribuzione di un potere, esercitato dallo Stato (il sovrano), cui tutti devono sottostare, pena l’applicazione di sanzioni.

Se il diritto è concepito secondo le teorie positivistiche per cui il diritto consiste essenzialmente ed esclusivamente in ciò che viene imposto dalla legge, al fine di mettere ordine alla guerra di tutti contro tutti, secondo una visione asociale della natura umana, risulta impossibile stabilire, attraverso il diritto, un legame sociale poiché lo Stato diventa il garante della libertà e della indipendenza dei singoli individui e il concetto di popolo risulta impensabile.

Contrapposta a questa visione, vi è quella dello stato di natura considerato non come dato presociale ma come ambito in cui l’uomo, caratterizzato da razionalità e socievolezza, è spinto proprio in forza di queste sue caratteristiche innate ad associarsi, a vivere in società secondo principi razionali, stipulando un patto, definito contratto sociale.

Secondo questa teoria, elaborata da Ugo Grozio (contemporaneo di Hobbes) il diritto naturale è il prodotto della ragione che fissa principi di carattere universale in base ai quali si potrà ordinare la società civile originata dal contratto.

Se il diritto è concepito come espressione di una natura umana che è costitutivamente sociale, destinata cioè a formarsi attraverso le relazioni con l’altro e non contro l’altro, esso non nasce come imposizione esterna di una autorità sovrana ma è frutto dell’ethos, della necessità di regolare qualcosa che fa già parte costitutiva dell’essere umano, allora è possibile pensare la fraternità e la presenza dell’altro non come limite alla libertà individuale ma come elemento di sviluppo della personalità di ciascuna persona.

In ogni caso, a prescindere dalla concezione della natura e del diritto che si assume come punto di partenza, la legge rappresenta il presupposto che impone o riconosce la presenza dell’altro, ponendo un limite alla pretesa totalizzante dell’io e della sua libertà.

Ma è solo la fraternità universale a fondare una concezione del rapporto tra persone e tra Stati in cui si riconosce la mutua dipendenza. Ogni persona umana, ogni Stato che appartiene alla comunità globale è qualcuno senza il quale il nostro essere uomini non è completamente sviluppato. Ogni persona ed ogni popolo sono appartenenti all’unica famiglia umana e ad unica comunità di destino che condivido la fragilità strutturale dell’essere uomo e del pianeta in cui vive. In ragione di ciò gli uomini hanno il compito di organizzare e improntare la struttura dei rapporti sociali e quelli tra Stati all’insegna della cura dell’altro, intesa come dovere inderogabile.

Questo discorso vale in ambito nazionale ma ovviamente in un mondo in cui “tutto è connesso” vale ancora di più in ambito globale. Ogni essere umano ha diritto a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente, e nessun Paese può negare tale diritto fondamentale: non vi possono essere limitazioni di sorta al riconoscimento universale di questo status fondamentale di ogni persona umana.

Dalle parte delle vittime

La guerra in Ucraina e il dibattito che ne è scaturito in merito alla via migliore per riportare la pace in Europa, salvando il maggior numero di vite umane, mi hanno portato a rileggere alcuni testi dell’antropologo francese René Girard che hanno a che fare anche col tema di questo blog. Mi riferisco in particolare all’ultimo di una serie di testi (La violenza e il sacro, Il capro espiatorio, Vedo Satana cadere come una folgore) che hanno rappresentato l’oggetto di tutta la vita di studi dell’Accademico francese: il meccanismo mimetico che sarebbe alla base di ogni società umana e da cui scaturirebbe la violenza che mina i rapporti umani.

Girard era interessato alle cause del conflitto e della violenza, e al ruolo dell’imitazione nei comportamenti umani. I nostri desideri, ha scritto, non sono nostri: vogliamo quello che altri vogliono. Questi desideri mutuati da altri portano alla competizione e alla violenza. Diceva che il conflitto umano non è causato dalle nostre differenze, ma piuttosto dalle nostre somiglianze. Nei momenti di disordine e di massima tensione provocati da questo meccanismo mimetico, gli individui e le società scaricano la responsabilità e le colpe su degli outsider, dei capri espiatori, la cui eliminazione riconcilia gli antagonisti riportando l’unità.

Attraverso questa lente, Girard ha riletto i miti fondativi della società, giungendo a riconoscere alle scritture giudaiche cristiane ed in particolare ai Vangeli, il merito di aver smascherato il meccanismo mimetico che porta all’assassinio originario su cui si fonda ogni società umana.

Questi testi religiosi, a differenza degli altri libri sacri e dei racconti mitici, hanno il merito di aver descritto questo meccanismo persecutorio, smascherandolo una volta per tutte dall’interno. L’assassinio fondatore di ogni cultura umana (Caino e Abele) è rappresentato biblicamente dalla figura di Satana, l’accusatore, il principio di ogni comunità umana, il processo mimetico nel suo insieme.

Gesù è la vittima innocente che muore ingiustamente a causa della cattiveria umana. Da allora il mondo non sarà più lo stesso perché con la sua morte, e prima ancora con la sua predicazione che ne anticipava le conseguenze, Gesù ha svelato definitivamente il meccanismo che spinge a colpevolizzare le vittime. La sparuta minoranza, rappresentata dai suoi suoi discepoli, che dopo la sua morte e resurrezione ha portato avanti il suo annuncio, con l’aiuto del Paraclito, l’avvocato, il consolatore, ha reso possibile, da allora, che le violenze verso le vittime innocenti della storia non rimanessero nell’oblio.

Ma Girard avverte anche che, nella misura in cui la società prende coscienza di tale disvelamento, la violenza, che da un lato è stata gradualmente imbavagliata, attraverso l’evoluzione giuridica, allor quando si manifesta, lo fa con modalità paradossalmente sempre più tremende, provocando un numero di vittime via via maggiore. Non è un caso quindi che oggi la violenza mimetica, nascosta nelle ideologie (razzismo, nazionalismo, capitalismo ecc.) finisca per riportare l’umanità sotto la minaccia della distruzione totale, fungendo, al tempo stesso, da strumento ordinatore. Oggi, dice Girard, proprio il riferimento alla “bomba nucleare” e alla minaccia di distruzione totale intrinseca, rappresenta l’ombrello sotto al quale l’umanità ritrova riparo alla violenza più estrema, così perpetuando quel meccanismo rituale che vuole trovare nella violenza il rimedio a se stessa.

Alla luce di questa lettura antropologica, che condivido, vorrei provare a scorgere come il meccanismo vittimario sia all’opera anche al conflitto russo ucraino e di come possa applicarsi alle posizioni assunte nell’opinione pubblica, rispetto a questa prospettiva.

Anzitutto vi è quella parte che chiede all’Ucraina di arrendersi per evitare una escalation nucleare sul presupposto che la potenza russa sarebbe troppo superiore a quella ucraina, ma non solo. L’Ucraina sarebbe responsabile di aver provocato la Russia per l diffusa presenza di forze neonaziste nell’esercito e nella popolazione, per aver compiuto atti di genocidio nelle regioni russofile e per essersi violato la neutralità, avvicinandosi alla sfera di influenza occidentale, chiedendo l’ingresso nella NATO. In questa tesi, che rispecchia le posizioni di Putin, vedo rispecchiarsi il meccanismo vittimato che attribuisce all’Ucraina il ruolo di vittima sacrificale, il cui sacrificio, in qualità di capro espiatorio, avrebbe l’effetto di ristabilire l’ordine violato.

L’altra tesi è quella che spinge per la resistenza dell’Ucraina, sostenendo l’impegno armato di Kiev, nella consapevolezza che solo la violenza può fermare la violenza. Questa posizione è ambivalente poiché può rientrare all’interno del meccanismo mimetico, alla luce del quale la violenza russa induce ad una risposta altrettanto violenta ma può essere assunta anche come tentativo di svelamento di tale meccanismo, come risposta alla necessità di tutelare le vittime dell’aggressione.

Infine vi è il movimento pacifista che sostiene che non debbano essere inviate armi all’ucraina per non favorire altre inutili vittime. Ciò sarebbe in linea con l’atteggiamento non violento di Gesù che si offre liberamente alla sua passione e morte. Tale posizione quindi si pone chiaramente al di fuori del meccanismo mimetico ma, dal punto di vista pratico, finisce con l’avere lo stesso effetto di chi aderisce al meccanismo del capro espiatorio, causando la capitolazione e il sacrificio della vittima.

Per tale motivo, la scelta più razionale e coerente con la lettura antropologica di Girard, a mio parere, non può che essere quella di chi sostiene la resistenza, muovendosi in uno stretto sentiero necessario ad evitare l’escalation violenta, poiché è l’unica via che risponde, in concreto, alla preoccupazione all’interno di cui si muove il disvelamento del meccanismo mimetico: la difesa della vittima innocente.

A conferma della bontà di questa soluzione, vi sono le ragioni del diritto internazionale ovvero della carta delle Nazioni Unite che consente ad un Paese di sostenere, anche attraverso il sostegno militare, un altro Stato vittima di aggressione, purché la risposta sia proporzionata e mirata alla difesa di quest’ultimo e non anche all’attacco dell’aggressore. Nell’ottica girardiana, l’evoluzione del diritto internazionale ed in particolari dei diritti umani, rappresenta il frutto del progressivo smascheramento del meccanismo mimetico nel corso della storia e di come siano progrediti, nel tempo, gli strumenti che l’umanità si è data per ampliare la tutela delle vittime.

Diversamente, la tesi pacifista, pur in astratto giusta, produce in concreto degli effetti che la smentiscono, abbandonando le vittime. Ciò non toglie che anche l’ipotesi della resistenza, mediante il sostegno armato, non debba essere costantemente rivista e monitorata, per evitare che le forze mimetiche in azione possa prevalere sul desiderio di pace e che la preoccupazione per la vittime finisca per giustificare la tesi bellicista.

La retorica dell’apocalisse

La retorica dell’apocalisse è un problema perché incastra le persone in un angolo, addossa loro responsabilità troppo pesanti e non tutte giuste da accollare ai singoli, così o il cittadino si mette buono buono nell’angolo e si ascolta la predica, paralizzato dagli indici puntati, oppure appena può si scrolla tutto da dosso e addio. Oltretutto, che si voglia o no, la retorica dell’apocalisse non è scientifica e può capitare – come è capitato, basta guardare l’esempio della pandemia – che all’inizio vengano messe in atto misure estreme e inutili, o invocato il castigo divino, come molti intellettuali alla Montanelli dissero al tempo dell’Aids. Far fuori la retorica dell’apocalisse significa usare la logica per fare spazio all’economia, trovare lo spazio utile e proficuo per le buone soluzioni, come i vaccini. Contro la fine del mondo significa che sì certo, ci dobbiamo pensare eccome, con inquietudine ma senza toni isterici, con serietà e lungimiranza, e abituarci a maneggiare più soluzioni e più strumenti. Perché ci sono. Ci sono in agricoltura, nel campo energetico, nelle fabbriche e per i nostri comportamenti quotidiani, ma purtroppo la retorica dell’apocalisse non ci permette di leggere con animo sereno e logico e razionale i nuovi strumenti, per analizzarli e misurarne gli effetti. E ci paralizza col noto ritornello: è tutto un magna magna. Ti fa sentire o peccatore che invoca lo Spirito santo o al contrario uno che più puro non si può. In entrambi i casi indossi inutili vestiti da prima comunione con cero annesso a simboleggiare la lotta contro il demonio. Perché la retorica dell’apocalisse si basa sulla proclamazione della fine del mondo dopodomani, anzi, visti i toni, spera anche in una catastrofe mondiale, che almeno si muoia tutti insieme sprofondando quando invece, memori della nostra storia evolutiva, ce ne andremo in silenzio, uno dopo l’altro, insomma niente di speciale o da poter raccontare in un film.

Antonio Pascale, Il Foglio, 22 aprile 2022

Condivido questa riflessione dello scrittore e autore Antonio Pascale, al tempo stesso, non vorrei che questo isterismo finisca per svilire il messaggio, razionalissimo, che una lettura attenta e soprattutto “scientifica” attribuisce all’apocalisse, l’ultimo libro del Nuovo Testamento.

Secondo Girard, antropologo francese, le scritture giudaico cristiane ed il vangelo in particolare, hanno avuto il merito di aver svelato il meccanismo mimetico violento alla base di ogni società umana. In questo contesto l’apocalisse (che letteralmente significa “rivelazione”) avrebbe il senso di disvelare, appunto, come questo meccanismo mimetico porti la violenza dell’uomo contro l’uomo all’esito della distruzione totale dell’umanità. E’ proprio questa consapevolezza che, secondo Girard, lungi dal favorire l’isterismo irrazionale da “fine dei tempi”, dovrebbe indurci a ragionare verso una concezione nuova dei rapporti umani, finalizzata a quella ricerca della felicità di cui parla Pascale al termine dell’articolo.

Pensiamoci, siamo otto miliardi, se riusciremo a essere logici, la mia idea insieme alla tua – messa alla prova e misurata – moltiplicherà l’entusiasmo e la felicità. Perché la felicità non sta nella purezza (che per essere valida necessita dell’impurezza infernale), ma nella ricerca di una soluzione di compromesso che sappia fare i conti con le scorie, i rimasugli che la vita produce. E infine, ma questo è un pensiero intimo, la felicità non è nella vita ma in una morte sana, senza dolore, con due o tre ricordi che ancora scintillano e illuminano quelle volte che siamo stati uniti e seri e motivati, e non allarmati, ansiosi e isterici da essere, insomma, già morti allora.

Tutto questo per dire che, attraverso una lettura “intelligente” dei testi biblici, si può desumere quella economia dei comportamenti umani ormai imprescindibile per affrontare le sfide globali, senza ricette precostituite. Il richiamo quindi all’apocalisse, per rispondere a Pascale, ha due alternative: la prima è quella che coincide con l’atteggiamento irrazionale di chi predica la fine del mondo, senza fare nulla; la seconda è quella di prendere atto che, di fronte alla possibilità, ormai concreta, di distruggere se stessi (con la guerra, piuttosto che con l’inquinamento), gli uomini possono acquisire la necessaria consapevolezza per comportarsi, razionalmente, di conseguenza, abbracciando l’unica alternativa utile: quella di cooperare al bene, al di là di ogni divisione (di nazione, di razza, di religione, ecc.).

Delusione

«A questa rivelazione ne seguì un’altra, fulminea: che la mia enorme capacità di restare deluso fosse in realtà una conquista, una vittoria. La misura e la frequenza devastante delle mie delusioni («in ginocchio, ma non ancora sconfitto» è il lamento vanaglorioso di Gauguin) erano la prova di quanto ancora mi aspettavo e desideravo dal mondo, di quanta speranza vi riponessi ancora. Quando non sarò più capace di restare deluso l’avventura sarà finita: tanto vale essere morti».

Geoff Dyer, Sabbie bianche

Austerità

L’austerità non è oggi un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per poter consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali. Questo è il modo con cui l’austerità viene concepita e presentata dai gruppi dominanti e dalle forze politiche conservatrici. Ma non è cosi per noi. Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia; cioè il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora, e che ci ha portato alla crisi gravissima i cui guasti si accumulano da anni e che oggi sì manifesta in Italia in tutta la sua drammatica portata.

Enrico Berlinguer, 15 gennaio 1977. Discorso agli intellettuali

In evidenza

La pace dis-armata

Dare le armi oppure no all’Ucraina è un dilemma morale che non trova risposte univoche, neanche in campo cattolico. Non è una questione rispetto alla quale ci si può separare tra pacifisti e non pacifisti.

Siamo d’accordo che nell’epoca nucleare è impensabile, irrazionale e illogico credere di ristabilire il diritto violato con la guerra. Ma qui non ci troviamo di fronte ad una guerra secondo i caratteri tipici del diritto internazionale. Si tratta di un atto di aggressione verso uno Stato sovrano che nessuna minaccia aveva sollevato verso l’aggressore.

Ma se resta vera comunque la premessa, sembra mancare una risposta pratica di NONVIOLENZA ad atti di aggressione come questi. Le richiesta di resa, avanzate in maniera troppo affrettata e improvvida da alcuni intellettuali, appaiono non tenere conto del diritto delle vittime a difendersi e della richiesta di aiuto che ci arriva da loro stessi. Qui in ballo ci sono due principi, l’autodeterminazione dei popoli e la legittima difesa, che non si possono liquidare facilmente e a cui occorre dare una risposta per evitare di apparire come coloro che vivono al di fuori dal mondo o peggio, fuori dalla realtà, o dimentichi delle vittime della guerra.

A livello individuale anche personalità come Gandhi e Bonhoeffer (che conosco e amo, come ho letto e amo MLK) arrivavano a legittimare un intervento finalizzato a fermare l’aggressore. Io sinceramente faccio fatica ad essere così netto al rifiuto di un sostegno, anche militare, all’Ucraina. Il Vangelo non dà soluzioni “pratiche” per dilemmi così complessi. Perché Gesù di certo era un uomo mite ma non passivo di fronte alla prepotenza altrui.

A motivo del rifiuto di inviare armi all’ucraina, vi è il rischio una di esclation nucleare, oltre all’illogicità di una pace ricercata attraverso il rifornimento di mezzi atti a uccidere. Riguardo al rischio di una esclation nucleare non può essere esclusa del tutto. Chi si schiera contro l’invio di armi, lo fa sul presupposto di non voler essere corresponsabile di chi, cominciando la guerra, ha ravvivato questa minaccia dentro l’Europa stessa. Ma se il problema è non essere corresponsabili dei crimini di guerra, non aiutare l’aggredito a difendersi non è una omissione ancora più grave? Non solo. Occorre ribadire che l’invio di armi ad una richiesta fondata sulla legittima difesa, non avrebbe la finalità di compiere atti di rappresaglia verso il nemico bensì a limitare, rigettare l’attacco del nemico, anche con la forza.

Non vi è dubbio che le infinite atrocità anche di questa guerra mettano in oscuro quelle poche “buone notizie” che riescono ad arrivare a noi, che tuttavia meritano di essere segnalate perché offrono una prospettiva per un pacifismo, non di maniera, ma figlio di una educazione civile alla nonviolenza. Mi riferisco in particolare a: gli aiuti alla popolazione ucraina in fuga, ma anche il sostegno con aiuti e rifornimenti a chi si trova ancora in Ucraina. E ancora di più gli atti di eroico boicottaggio dei cittadini ucraini contro gli invasori russi, i disertori dell’esercito russo e i manifestanti nelle piazze russe. Ancora il boicottaggio degli aiuti all’esercito russo in Bielorussia, così come il blocco dei camion russi sul confine polacco; le azioni di hackeraggio contro il governo e i media russi e quelli contro le aziende che hanno aggirato le sanzioni. Le manifestazioni pacifiche di protesta dei cittadini ucraini contro l’esercito invasore. Coerenza vorrebbe anche che di fronte a certe oscene immagini di crimini di guerra, i governi dei Paesi occidentali rifiutano di acquistare anche le materie prime dalla Russia, pur di non cofinanziare queste azioni violente.

Tutte queste misure, messe insieme, potrebbero formulare oggetto di specifici capitoli di un manuale di pacifismo concreto e nonviolento sul quale il mondo potrebbe lavorare per contribuire a creare format di sostegno non violento che potrebbero/dovrebbero essere adottato in favore delle popolazioni aggredite militarmente.

Ma prima che tutto ciò diventi operativo, prima che il mondo si doti davvero di una forza di contrapposizione di pace in grado di intervenire nei conflitti tra Stati sovrani, oggi, nell’impossibilità di tutto questo, le speranze di pace passano attraverso la resistenza ucraina e il suo sostegno affinché possa essere messe a tacere quanto prima le ragioni delle armi e si torni a discutere sui tavoli della diplomazia.
Questo, ad oggi, è il percorso che consente di tenere insieme la ricerca della pace con la tutela migliore per le vittime della guerra.

“Non-violenza”. La pistola annodata in bronzo di Fredrik Reutersward fuori del Mémorial de Caen, in Normandia, Francia.

La relazione con l’altro

La relazione con l’altro comporta necessariamente dei conflitti. Perché?

Anzitutto perché ciascuno di noi è un essere limitato. Siamo “tarati” per giudicare il mondo in base ai nostri occhi e l’interpretazione che diamo della realtà è frutto della nostra visione che è frutto dei nostri limiti culturali, ambientali e sociali. I social network hanno messo in evidenza in maniera lampante questo aspetto: siamo chiusi nella nostra “bolla” che propone i post che più ci piacciono, sui quali siamo invitati a mettere “like”, le nostre “amicizie” molto spesso non corrispondono a quelle reali ma siamo portati ad emettere commenti/giudizi su qualsiasi cosa. 

Byung-Chul Han filosofo sudcoreano nel testo “L’espulsione dell’altro” sottolinea come la nostra società tenda a scartare la differenza a vantaggio dell’uguale, l’altro disturba i meccanismi di un sistema che richiede sempre più velocità. Tutto ciò ha l’effetto di impoverire la vita e genera nuove patologie. L’inflazione dell’io imprenditore di se stesso genera angoscia e autodistruttività, l’esperienza e la conoscenza sono sostituite dalla mera informazione, le relazioni personali cedono il posto alle connessioni telematiche, si accumulano amici e follower senza mai incontrare veramente l’altro. 

Luigi Zoja, psicanalista, ne “La morte del prossimo” scrive: “Ama Dio e ama il prossimo, diceva il comandamento. Ma già per Nietzsche Dio era morto. E il prossimo? Nel mondo pre-tecnologico la vicinanza era fondamentale. Ora domina la lontananza, il rapporto mediato e mediatico. Il comandamento si svuota. Perché non abbiamo più nessuno da amare”.Le connessione mediatiche hanno reso costante il contatto ma eliminato la prossimità ed escluso i lontani, gli altri. 

Secondo il sociologo francese Alan Ehrenbergil diffondersi della depressione è una conseguenza del perduto rapporto con il conflitto”. La diffusione delle droghe e gli atti di autolesionismo sarebbero anch’essi l’esito della repressione degli stati conflittuali. Anche la mania del selfie sarebbe l’espressione del tentativo di riempire con il proprio viso una mancanza, un sentimento di vuoto. Anche la morte che è l’estrema conseguenza del conflitto è rimossa nella società contemporanea. Essa non appartiene più alla vita ma la mera fine della vita che occorre differire con ogni mezzo. 

Tutto ciò provoca in noi credenti uno smacco. Il conflitto infatti appare inconciliabile con la ricerca della pace che ogni cristiano dovrebbe perseguire in ogni contesto di vita. 

Il rischio di fronte al conflitto è duplice: quello della fuga o quello della violenza. Ma come cristiani abbiamo una responsabilità. Il cristiano è un pacificatore, un chiamato a fare pace tra sé e gli altri, in ogni circostanza. Sin dalla prima pagine della Bibbia, la parola di Dio ci parla di questa difficoltà della relazione con l’altro, a cominciare dal peccato originale che è frutto di incapacità di ascolto e di comunicazione tra Dio e l’uomo e tra l’uomo e la donna e poi con l’episodio del fratricidio operato da Caino nei confronti del fratello Abele. 

Queste dinamiche conflittuali riguardano tutti gli aspetti della nostra vita. Ogni gruppo, comunità, formazione sociale è tentata di rinchiudersi in se stessa, di essere escludente. Ma il conflitto colpisce anche all’interno rischiando di disgregare il gruppo. 

Non possiamo rifugiarsi nella preghiera o negli atti caritatevoli lasciando che il resto della nostra vita proceda normalmente ovvero resti immersa nei conflitti. La preghiera e la carità ci aiutano invece a trasformare le nostre vite affrontando i conflitti, facendosene carico. 

La prima cosa da fare è dunque riconoscere che i conflitti fanno parte della nostra vita, non solo materiale ma anche spirituale. Essi sono inevitabili per andare incontro a Cristo. Anche Gesù li ha vissuti pienamente nel suo percorso di fede. Non dobbiamo pensare che Gesù sia nato e formato come vero uomo per il fatto che sia Figlio di Dio. Anche lui ha conosciuto il conflitto, il distacco dai genitori, dalla famiglia, ha subito la persecuzione della sua comunità che fino a poco tempo prima lo osannava e infine ha subito il tradimento e l’abbandono dei suoi amici più stretti, i discepoli, fino a sentire l’abbandono di Dio sulla croce.

Il conflitto è dunque esperienza di un limite. La crescita della persona umana non è altro che un crescendo e un adeguamento fisico e spirituale ai limiti e ai conflitti che il mondo ci mette di fronte (parlo di conflitti in senso generico, ampio) nella misura in cui cresce la nostra libertà. Esistere significa ricevere l’esistenza da altri (prima di essere stati madri o padri, siamo stati figli e figlie) e al tempo stesso esistere significa anche provocare reazioni negli altri, i nostri genitori prima, i nostri figli oggi, i nostri amici, i coniugi ecc. 

Fuggire i conflitti significa rinunciare ad essere. Non si vive senza gli altri. Questo significa che non si vive senza lottare con loro. Allora è importante che ciascuno si senta immerso nella sua specifica parte di esistenza che gli è stata affidata dalla sua condizione di uomo, di donna, di madre, di padre, di figlio, di lavoratrice. Ciò che ci viene chiesto è affrontare i conflitti che viviamo e non pretendere di salvare il mondo intero. Se il cristiano si sottomette alla prova di questi conflitti imparerà l’umiltà della pace, si renderà conto che la pace non è qualcosa che appartiene al cielo. 

In questi conflitti il cristiano, mi preme sottolinearlo, non ha ricette già pronte ma attraverso la preghiera e la carità possiamo portare Dio nelle relazioni umane. Il cristiano è colui che ispira la sua vita a Cristo, fa di Gesù il suo unico maestro e per questo lo studio e la preghiera della parola di Gesù diventano uno strumento fondamentale per orientarci nella vita. 

L’obiettivo di questo esercizio, di questa “ascesi” spirituale è cercare di assumere lo sguardo di Gesù rispetto alle situazioni di vita che ci coinvolgono nel quotidiano partendo dal presupposto che quando incontriamo gli altri è Dio che ci parla e ci interpella attraverso di loro e attraverso di loro possiamo giungere alla riconciliazione con Dio e con gli uomini. Non ci sono altre strade, non ci sono scorciatoie per arrivare a Dio se non attraverso il prossimo. Per il cristiano parlare di Dio significa avere in mente Gesù, è lui che ci narrato Dio e ci invita a seguirlo per seguire il padre, nell’amore dei fratelli. 

La pace arriva da un assenso più profondo al compito che Dio ci ha dato. Assumere questa vocazione particolare, questi compiti famigliari, lavorativi, sociali che Dio ci ha affidato è il modo di mostrare la nostra fedeltà a Dio, di mettere a frutto i talenti che ci sono stati dati. Da questa fedeltà il mondo riconoscerà i cristiani, dai frutti e dalla gioia che Gesù ha promesso a chi sarà fedele alla sua parola. Questa è la differenza cristiana. Non abbandonare l’altro, né usargli violenza ma esercitare responsabilità e cura. Per fare questo occorre molto spesso la creatività che nasce appunto dalla custodia amorevole. 

Il conflitto oppone due interpretazioni che vengono messe in questione attraverso il confronto che permette a ognuno maggiore lucidità. Mettere in discussione la propria posizione per cercare di includere anche il punto di vista dell’altro accogliendolo ricercando soluzione creative al conflitto.

Nel conflitto siamo iniziati all’esistenza dell’altro, dobbiamo prendere atto che l’altro c’è e non possiamo né ignorarlo né eliminarlo. Qualcosa di indicibile si rende presente e nell’altro possiamo contemplare e rispettare lo stesso mistero che sia in noi che in lui. 

Agostino dirà “Io stesso sono diventato domanda a me stesso: chi sono? Che cosa sono?”. Sono un uomo posso rispondere ma che cosa sono solo Dio può saperlo con esattezza. Anche l’altro è figlio di Dio e mi parla del mio Dio. Mio Dio non perché mi appartiene ma perché io appartengo a lui insieme agli altri che mi aiutano a disvelare altre prospettive di quello stesso Dio. Ecco dunque l’impegno a cui anche Papa Francesco ci chiama per la fraternità universale che passa non da generici appelli ma dal farsi prossimo, alla stregua del “samaritano” che Gesù stesso ci indica ad esempio. 

Attraverso i conflitti Dio dunque spezza le sicurezze, dilata gli orizzonti e rinnova la fede. Dio è un idolo se lo identifichiamo con ciò che ci piace. Se lo comprendi non è Dio, dirà ancora Sant’Agostino. Egli è anche l’altro, anzi è l’Altro per eccellenza. In tutta la Bibbia non si racconta che questo: il farsi Altro di Dio. La brutalità dei conflitti ci insegna chi egli è, così come ce lo insegna la dolcezza della preghiera e la tenerezza dell’amore. 

Gesù vive con il Padre nell’unità ma al tempo stesso riceve la vita, la volontà, l’azione, la parola. Una misteriosa distanza vissuta fino all’agonia. Il padre gli fa violenza, Gesù fa violenza a se stesso accettando la volontà del padre come sua. A questo prezzo egli riconosce nel Padre colui dal quale non può essere separato, fino a decidere di donare la sua vita per amore. Per questo il Padre lo resuscita e lo pone alla sua destra, faccia a faccia con sé, dimostrando che non come la morte, come dice il salmo, ma più forte della morte è l’amore.

Questo percorso che Gesù compie nella sua vita lo compie grazie alla libertà che egli vive, da cui scaturisce la responsabilità per coloro che gli sono stati affidati, gli uomini e le donne, che definisce suoi fratelli. 

Gesù ci insegna la via di Dio con libertà. Ed è proprio questo a suscitare opposizione. L’autorità e la libertà di Gesù spiegano i conflitti che saranno determinati dalla sua parola e che lo porteranno da ultimo alla sua condanna. Questa libertà che è una libertà-per viene però declinata come libertà-da.

La prima forma di libertà vissuta da Gesù è nei confronti della sua famiglia, dei legami famigliari, della cellula umana e sociale primordiale. Ciò non significa che Gesù contesti la famiglia o non la valorizzi. Semplicemente egli afferma la precedenza della volontà di Dio e dell’annuncio del Regno rispetto ad ogni legame, a cominciare da quello famigliare. 

Nel Vangelo di Marco questo episodio è subito dopo l’istituzione, la chiamata dei discepoli. L’inizio della predicazione pubblica di Gesù scatena la sua famiglia che vorrebbe fermarlo. Gesù risponde in maniera eloquente con una parola che richiede semplicemente di essere accolta (Mc 3,31-35). 

Gesù sceglie una nuova famiglia che non è quella legata da vincoli di sangue. E’ una scelta atipica, costosa per l’epoca che si rivela fonte di libertà. Gli consente di mettersi totalmente a disposizione della sua missione: l’annuncio del Regno. Questa scelta netta chiede anche ai suoi discepoli. 

La libertà dalla famiglia, vissuta e richiesta da Gesù, dona la possibilità di sperimentare il centuplo nel tempo presente. Questo vale per il cristiano di ogni tempo, in qualsiasi stato di vita si trovi. Anche all’interno della famiglia sono sempre le esigenze del Regno a dover prevalere ma alla lunga l’esperienza di questa libertà si traduce in possibilità di vita gioiosa libera e liberante per coloro che il cristiano incontra nel suo cammino, a cominciare dai suoi famigliari. 

Fare la volontà di Dio è un’espressione che troviamo raramente nel vangelo. Essa è descritta in negativo, sappiamo cosa non è fare la volontà di Dio: incostanza di fronte alle tribolazioni, essere presi dalle preoccupazioni del mondo o subire la seduzione delle ricchezze. 

Gesù vede che il suo annuncio e le sue azioni sono stati accolti da coloro che lo hanno messo al centro della loro vita e in essi porteranno frutto. Seguire Gesù e insieme a lui imparare a fare la volontà di Dio ci rivela la possibilità di essere fratelli. La libertà dai legami famigliari ovviamente non significa libertà dai famigliari. Significa compiere tutto quel percorso che Gesù stesso ha fatto e con lei per prima fra le donne e gli uomini da sua madre Maria. Lei infatti che nel testo di Marco viene potremmo dire respinta in maniera dura dal figlio, la ritroviamo accanto al figlio sotto la croce insieme e nel Vangelo di Giovanni addirittura Gesù le affiderà il discepolo amato. Lei che qui è allontanata evidentemente ha compiuto un percorso che il suo ruolo di madre può avere facilitato ma che non è scontato. 

Questo percorso consiste nell’aver compreso e meditato le parole di quel Figlio che già dodicenne si rivela ai genitori in maniera misteriosa mentre lo cercavano preoccupati al ritorno da Gerusalemme “Non sapevate che devo occuparmi della cose del Padre mio?” (Lc 2,49) e che proprio nel dono totale di sé per amore degli altri, fino all’amore dei nemici, svelerà se stesso e il Dio che ha annunciato con gesti e parole per tutte la sua vita.

Riprendendo quindi in chiusura quanto dicevamo all’inizio in merito all’assenza di ricette da parte del cristiano nella soluzione dei conflitti, ciò che possiamo offrire è piuttosto uno stile cristiano, una differenza che nasce da un approccio di ascolto e di attenzione verso l’altro. “L’attenzione è la preghiera spontanea dell’anima” scrive Malebranche. L’anima è sempre in atto di preghiera. È in cerca. È un’orante invocazione dell’altro, totalmente Altro. Nella preghiera e nell’ascolto ci esercitiamo a questa attenzione, alla presenza misteriosa del totalmente Altro: “Dove due o tre sono uniti nel mio nome, io sarò con loro” (Mt 18,20) dice Gesù. Considerare la vita a partire dall’Altro è l’antidoto al mettere sempre davanti il nostro ego, imparare il linguaggio della responsabilità e imparare ad ascoltarlo.

L’ascolto richiede impegno, prossimità, non è possibile un ascolto a distanza, digitale; esso richiede tempo, un tempo che però è anche in grado di riconciliare e guarire. È proprio questo ciò di cui abbiamo bisogno, una rivoluzione del tempo che diventi tempo dell’ascolto, tempo per l’altro, tempo improduttivo, che a differenza del tempo per sé è in grado di costruire una comunità.

Bibliografia

M. De Certeau, Mai Senza l’Altro, Qiqajon, Magnano, 2000
L. Zoja, La morte del prossimo, Einaudi, Torino, 2009
B.C. Han, L’espulsione dell’Altro, Nottetempo, Milano, 2017

Just Mercy. Il diritto di opporsi

“Il diritto di opporsi” è un libro necessario per capire ciò che sta accadendo in USA da alcuni mesi a questa parte.
Dietro l’aurea di efficienza che si cela dietro il sistema giudiziario americano visto da oltreoceano, l’autore e protagonista del libro, l’avvocato Bryan Stevenson, racconta attraverso storie vere, il lavoro svolto con la sua associazione contro la pena di morte, a fianco degli invisibili delle carceri americani, manco a dirlo poveri e neri, vittime di clamorose ingiustizie.

Carcerazioni di massa, condanne a morte inventate, lavori forzati, minorenni condannati all’ergastolo, misure draconiane quasi sempre dirette verso la parte più povera e debole della popolazione, hanno contribuito a far crescere la paura ma anche la rabbia di un’intera comunità.

“Il diritto di opporsi” è il titolo di un libro (e di un film) che nella versione originale sarebbe invece “Just Mercy” ovvero “Sola grazia”.
La traduzione del titolo ovvero la sua sostituzione, come spesso fanno editori e produttori italiani, è un tradimento del libro o quantomeno del significato principale che l’autore avrebbe voluto dare alla sua opera che è appunto quella di dare misericordia, perdono. Del resto potrebbe sembrare strano, al
lettore distratto, che un avvocato americano di successo usi il termine “mercy” in un libro che narra di processi, casi e sentenze.

Non lo è nel momento in cui il lavoro di Stevenson (laureato in filosofia prima di intraprendere lo studio del diritto) diventa occasione per una riflessione più profonda sui temi con cui l’autore si è confrontato nel corso di una vita intera.
È la vicinanza praticata a fianco dei sofferenti che dà modo di comprendere che “Non c’è pace senza giustizia e non c’è giustizia senza perdono”, come disse Giovanni Paolo II. La giustizia è veramente tale quando non si trasforma in vendetta e ambisce a non ridurre il reo all’atto che ha commesso.

Anche per questo, come ci fa intendere l’autore, la crisi della società americana non potrà essere superata se non con un riconoscimento delle profonde ingiustizie subite dalla comunità afroamericana nel corso della storia e da un processo di conciliazione che metta fine alla segregazione razziale che continua a perpetrarsi sotto varie forme.

Allo stesso modo, noi che assistiamo a quanto sta avvenendo di là dell’oceano, non siamo immuni dalla tendenza a criminalizzare i poveri e gli stranieri. Per cui siamo chiamati a non perdere quella pratica di compassione che pure caratterizza ancora tanta parte del tessuto sociale, respingendo i tentativi politici di rendere più cinica la nostra società.

L’assenza di compassione può corrompere la dignità di una comunità, di uno Stato, di una nazione.“ (pag. 28).

I Borghi del Respiro: per una ecologia integrale applicata*

I Borghi del respiro si sono presentati sabato 1 agosto in un seminario con diretta web organizzato in contemporanea da Fontecchio (AQ), da Nocera Umbra (PG) e Leonessa (RI) a cura dell’Associazione Nazionale Borghi del Respiro presieduta dall’Avv. Luciano Morini e dalla Dott.ssa Francesca Marinangeli in qualità di coordinatrice del Comitato Scientifico dell’Associazione. 

I primi 15 Comuni italiani aderenti hanno firmato il “Patto per il Respiro”, impegnandosi simbolicamente ed effettivamente, nell’ambito dell’Associazione Nazionale Borghi del Respiro, a tutelare la salubrità ambientale, a migliorare lo sviluppo e il turismo sostenibile locali e la vivibilità del borgo, perseguendo l’obiettivo di proteggere la salute e il benessere respiratorio di cittadini ed ospiti e al contempo di promuovere una cultura della salute. A prescindere dall’emergenza Covid-19, infatti, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ci ricorda che l’inquinamento atmosferico rappresenta una delle principale causa di mortalità nelle zone sviluppate e riduzione della vita media in quanto fattorie primario nello sviluppo di malattie cardiache e respiratorie.

I Borghi del Respiro sono situati in distretti di buona qualità dell’aria attestati dai principali parametri nazionali (D. Lgs. N. 155/2010) definiti in attuazione del Piano Europeo per l’aria pulita COM (2013)918.  Oltre a questa qualità intrinseca, i Comuni che aderiscono all’Associazione Nazionale Borghi del Respiro siglano un “Patto del Respiro” con il quale si impegnano formalmente ad offrire a residenti e turisti servizi dedicati alla salute respiratoria, ma non solo. Il patto del respiro significa prevenzione della salute ma anche alleanza e perseguimento di uno sviluppo sostenibile, protezione della natura, monitoraggio della qualità dell’aria e promozione di sani stili di vita.

Il nuovo rapporto Air Quality Life Index (AQLI) realizzato dall’Università di Chicago ha ribadito come nonostante il coronavirus, l’inquinamento atmosferico rimane ancora il maggior fattore di rischio per l’aspettativa di vita globale. Lavorando senza essere visto all’interno del corpo umano, l’inquinamento da particolato ha un impatto più devastante sull’aspettativa di vita rispetto alle malattie trasmissibili come la tubercolosi e l’HIV/AIDS, e addirittura al fumo di sigaretta e persino alla guerra.
Anche in merito al Covid-19 nella comunità scientifica si discute sui possibili legami con l’inquinamento ed in particolare sulle cause della differenta modalità di diffusione di questo virus che colpisce le vie respiratorie. Diversi studi hanno accertato una correlazione tra zone particolarmente inquinate e aggressività del nuovo coronavirus dovuta al ruolo di facilitatore nella trasmissione del virus che il particolato avrebbe per la capacità di queste particelle inquinanti di penetrare negli alveoli polmonari. 
Sebbene ancora non sia stato accertato il rapporto di causa effetto, già da tempo è stata comunque accertata in ambito medico la relazione tra la prolungata esposizione all’inquinamento atmosferico e le malattie respiratorie e cardiache che rappresentano di gran lunga la principale causa di morte negli uomini. 
Secondo l’OMS L’inquinamento atmosferico ogni anno uccide 7 milioni di persone nel mondo. Nessuno si salva visto che 9 cittadini su 10 respirano aria contenente alti livelli di sostanze inquinanti.

Il progetto si avvale di un comitato scientifico che ha definito il regolamento e ha proposto un pool di azioni virtuose alle quali i Comuni possono aderire per preservare, migliorare e valorizzare la qualità dell’aria dei propri territori nell’ottica di uno sviluppo sostenibile (Agenda 2030 ONU). Il Comitato, di livello scientifico elevatissimo, vede la partecipazione dei seguenti Enti: CREA, Centro di Ricerca Politiche e bio-economia, come coordinatore (settore: Biopolitiche rurali e protezione della natura); AIPO-ITS – Associazione Italiana Pneumologi Ospedalieri – Italiana Thoracic Society (settore: Prevenzione della salute respiratoria e sani stili di vita); ISTO-OITS Organizzazione internazionale del Turismo Sociale rappresentato in Italia daUNPLI, Unione Nazionale Pro-Loco d’Italia (settore: turismo sociale e sostenibile); ISPRA, IstitutoSuperiore Per la Protezione e la Ricerca Ambientale, (settore: ambiente e monitoraggio della qualità dell’aria); Associazione Italiana Pazienti BPCO onlus, (settore: formazione ed informazione al pubblico).

I Borghi del respiro rappresentano la prosecuzione in ambito nazionale del progetto pilota “Nocera Umbra Oasi del respiro del respiro” avviato allorquando il sottoscritto in qualità di assessore con la consulenza della dott.ssa Marinangeli propose la realizzazione di una serie di azioni finalizzate a valorizzare le qualità naturalistiche e ambientali di Nocera Umbra. 

Il progetto dei “Borghi del Respiro” non si limita a migliorare l’offerta turistica dei Comuni aderenti ma aspira ad essere un progetto nei quali le amministrazioni siano coinvolte in un impegno complessivo che si ponga come strategia contro lo spopolamento che soffrono tutti i Borghi delle aree interne italiane. Anche Papa Francesco nell’enciclica “Laudato Sì”, sulla cura della casa comune, ci ricorda che “tutto è connesso” ovvero che “Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura” (n. 139). In altre parole, “non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale, che deve integrare la giustizia nelle discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri” (n. 49).

Per questo motivo gli ambiti sui quali invitiamo le amministrazioni a lavorare non si limitano agli aspetti turistici. La sfida che lanciamo ai Comuni delle rete Borghi del respiro è quella di essere creativi, stimolando l’avvio di nuove iniziative imprenditoriali nel rispetto dei principi dell’economia circolare, per contrastare lo spopolamento delle aree interne del nostro Paese.
Pochi mesi fa, prima della pandemia Covid-19 è giunta la notizia che per la prima volta nella storia il numero delle persone che nel mondo vivono in città ha superato quelle che vivono in campagna. Oggi a molti parlano di ritorno ai borghi, di nuovo sviluppo a partire dall’aree interne. Noi siamo molto felici di questo ma al tempo stesso crediamo che la riscoperta delle aree interne non possa essere legata solo al turismo.

Il rilancio dei Borghi passa attraverso un nuovo sistema economico che consenta la creazione di nuovi posti di lavoro nell’agricoltura, nel commercio, nell’artigianato e nei servizi attraverso la valorizzazione e la promozione delle risorse ambientali e favorendo il ritorno alla vita e al lavoro nei borghi, con l’aiuto delle nuove infrastrutture digitali e tecnologiche che diventano essenziali per lavorare e vivere nei borghi montani.

Per questo non è casuale la scelta di Comuni di montagna che hanno vissuto o vivono il dramma del terremoto. Perché vogliamo mettere a disposizione di queste realtà a cui siamo legati e di cui riconosciamo l’importanza per il patrimonio ambientale culturale e sociale italiano, una serie di proposte e un supporto scientifico che possa aiutarli ad esprimere la generatività necessaria al loro rilancio. Siamo convinti, infatti, che il nuovo rinascimento italiano debba assumere come spunto le bellezze naturali dell’aria, dell’acqua, della terra e dai borghi montani diffondersi in tutto il Paese.

Ecco la lista dei primi 15 Comuni aderenti nelle Regioni attualmente coinvolte: Abruzzo –  Fontecchio, Lucoli, Rocca di Mezzo, Rocca di Cambio, Scanno, Secinaro, Tione degliAbruzzi, Villa S. Angelo; Lazio- Amatrice, Cittareale e Leonessa; Umbria- Cascia, Nocera Umbra, Passignano sul Trasimeno, Sigillo. L’obiettivo è quello di crescere già dal prossimo anno con le adesioni di altri Comuni provenienti anche da altre Regioni d’Italia che abbiano le stesse qualità ambientali e la voglia di lavorare su questi temi.

*pubblicato sul periodico “L’Altranocera”

Il logo del marchio Borghi del Respiro

Tra Ferragosto e Natale. Pensieri sparsi

Il bus 142 di Christopher McCandless, il ragazzo morto all’età di 23 anni protagonista del libro di Jon Krakauer e portato sulla grande schermo da Sean Penn, è stato rimosso. L’amministrazione dello Stato dell’Alaska ha deciso di distruggerlo per evitare che gli escursionisti potessero mettersi in pericolo. McCandless dopo aver lasciato casa e famiglia si mise in viaggio da solo alla ricerca di se stesso, trovando la morte in circostanze sfortunate. Nei suoi diari scrisse la frase chiave della sua storia: “la felicità è reale sono se condivisa”.

In questi mesi di pandemia fioccano gli inviti a godere delle propria situazione, a riprendersi la propria vita senza mettersi in pericolo; a rispettare il proprio lavoro e la propria azienda, per chi ancora ce l’ha. Sono messaggi che istintivamente possono suscitare immediata simpatia ma riflettendoci più a fondo dobbiamo riconoscere che stare bene pensando a chi sta peggio di noi non è granché. Per questo se siamo più fortunati nell’affrontare una crisi, come persone o come Paese, a prescindere se ciò dipenda dalla nostra bravura o dalle circostanze, abbiamo la responsabilità di aiutare chi è più in difficoltà. Proprio perché come comprese McCandless “la felicità è reale solo se condivisa”.

La pandemia ci rivela l’alto grado di connessione che c’è ormai tra tutta la famiglia umana e quanto sia importante cooperare affinché tutti possiamo ritenerci al sicuro.

Ci dividono frontiere sempre più labili, cieli, terre e mari rapidamente attraversabili.
Davvero mostrare la faccia cattiva, essere inflessibili con i più poveri può metterci al sicuro?

Volere il bene di chi più soffre non è buonismo perché se siamo un’unica famiglia, un unico corpo, allora non si può restare indifferenti alla sofferenze di mio fratello o di mia sorella.

Ma dove comincia la prossimità? Certo non può essere la soglia di un porto, un confine, una carta di identità o un passaporto a definirla. Ogni giorno nel vissuto quotidiano, in famiglia, a lavoro, in città, ciascuno potrà, se vorrà, aprire gli occhi sulle tante sofferenze di fronte alle quali avrà deciso di non voltarsi dall’altra parte.

Se ci fosse una classifica sulla generosità dei mesi dell’anno, sicuramente potremmo dire che Dicembre sarebbe il mese più “generoso” mentre Agosto probabilmente sarebbe il più “egoista” con il suo riposo dalle cose quotidiane, il distacco dagli altri e dalla città.

Facile quindi per il solito politico di turno girare per le spiagge e le città ad aizzare il popolo contro “gli immigrati che sputazzano e infettano”. Egli spara il suo messaggio come uno spot pubblicitario, sperando che il sottofondo rumoroso possa diffondere il virus egoista e faccia vendere il suo prodotto all’elettore/consumatore distratto dal caldo e dalle ferie.

L’antidoto alla diffusione di questo virus è ricordarsi che “o è Natale tutti i giorni o non è Natale mai” come cantavano Carboni e Jovanotti nella cover natalizia di “More than Words”. Al solito sono i poeti con le loro pennellate espressive a sintetizzare con mirabili metafore il senso di ciò che gli uomini portano nel cuore.

“PENSA AGLI ALTRI

Di Mahmoud Darwish

Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.

Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri, non dimenticare coloro che chiedono la pace.

Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri, coloro che mungono le nuvole.

Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri, non dimenticare i popoli delle tende.

Mentre dormi contando i pianeti , pensa agli altri, coloro che non trovano un posto dove dormire.

Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri, coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.

Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso, e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.”

Per fortuna anche in queste giornate d’agosto c’è chi decide di non pensare solo a sé e di dedicare del tempo a chi è solo e non ha una casa. Questi gesti concreti sono il presidio contro il diffondersi della barbarie.

E non a casa la tradizione e la sapienza della Grande Chiesa ha voluto porre al cuore della festività pagana delle “Feriae Augusti” che comunemente traduciamo con il termine di Ferragosto, la festa dell’Assunzione in cielo della Vergine Maria, il prototipo dell’umanità voluta da Dio, l’essere per gli altri che così divinamente è stata descritta da Dante nell’ultimo Canto del Paradiso:

Vergine madre, figlia del tuo figlio,

umile e alta più che creatura,

  termine fisso d’etterno consiglio,

tu se’ colei che l’umana natura

nobilitasti sì, che ‘l suo fattore

   non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l’amore,

per lo cui caldo ne l’etterna pace

così è germinato questo fiore.

Qui se’ a noi meridïana face

di caritate, e giuso, intra ‘ mortali,

se’ di speranza fontana vivace.

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,

che qual vuol grazia e a te non ricorre,

sua disïanza vuol volar sanz’ali.

La tua benignità non pur soccorre

a chi domanda, ma molte fïate

liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,

in te magnificenza, in te s’aduna

quantunque in creatura è di bontate.

La tenda issata per ripararsi dal solo cocente durante il pranzo domenicale della Comunità di Sant’Egidio a Perugia