La questione che si intende affrontare qui è la collocazione politica del cristiano ovvero dare spunti per una riflessione su di essa. Ultimamente abbiamo sentito dire da più parti che “Un cristiano non può votare Lega” mentre il Ministro leghista con delega alla famiglia affermava che “per il Vangelo la prossimità si riferisce a colui che mi sta più vicino” giustificando la politica del “prima gli italiani”; pochi mesi prima un altro più noto Ministro dello stesso partito concludeva la campagna elettorale 2018 con il Vangelo in mano mentre oggi, a cento anni dalla fondazione del Partito Popolare da parte di don Luigi Sturzo, abbiamo letto vari intellettuali interrogarsi sull’opportunità di un nuovo partito dei cattolici.
Per quanto mi riguarda, le questioni di cui sopra, pur di un certo rilievo pratico, vengono dopo rispetto al tentativo di restituire unità e coerenza ad un agire politico che in un clima di costanti polarizzazioni, consenta al cristiano di sentirsi pienamente rappresentato.
Questa polarizzazione, infatti, fa sì che anche una figura amata e popolare tra la gente, come Papa Francesco, venga considerato un sinistroide comunista quando parla dell’apertura verso le persone immigrate e un prete reazionario e antistorico quando si scaglia contro l’aborto.
Tutto ciò ovviamente rende assai difficile la collocazione politica per un cristiano che si dichiari al tempo stesso favorevole all’immigrazione e contrario all’aborto, dunque in linea con la dottrina della Chiesa Cattolica.
Un aiuto potrebbe giungere direttamente dal Vangelo e da una interpretazione approfondita riguardo al noto detto di Gesù: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Mc 12,27). Siamo soliti ricondurre il significato di questa frase alla volontà di Gesù di tracciare la separazione tra il potere politico e quello spirituale.
Senza rinnegare questa lettura, dobbiamo tuttavia sforzarci di rileggere questa affermazione nel contesto in cui è stata pronunciata per cogliere ulteriori sfumature in grado di illuminare la nostra domanda.
La frase riportata nel Vangelo di Marco è posta a chiusura di una discussione tra farisei ed erodiani da una parte e Gesù dall’altra. I primi hanno giurato di farla pagare a Gesù ed alcuni di loro sono stati inviati ad interrogarlo dai sommi sacerdoti per tendergli una trappola.
Siamo nel Tempio, luogo dove sono vietate tutte le immagini e non è permesso portare monete che riportino effige di dei, tant’è che nel cortile del Tempio erano presenti i cambiavalute, cui dovevano rivolgersi coloro che volevano acquistare animali da offrire in sacrificio per la purificazione. I farisei interrogano Gesù chiedendogli se è lecito pagare il tributo a Cesare oppure no. La domanda è a risposta chiusa, comporta un sì o un no. In entrambi i casi la risposta esporrebbe Gesù alla contestazione, da parte dei Giudei in caso di risposta positiva ovvero da parte dei Romani in caso di risposta negativa, giacché in ogni caso ne verrebbe minata la rispettiva autorità. Gesù non risponde alla domanda ma ribalta la questione, come fa con tutti coloro che lo sfidano per provocarlo, e chiede a sua volta di vedere la moneta e cosa vi è raffigurato. I suoi interlocutori mostrano la moneta con l’effige di Cesare, violando la prescrizione del Tempio, dimostrando quindi di essere, loro sì, preoccupati di conoscere la risposta ad un problema che evidentemente è tale solo per loro e non per Gesù.
È a questo punto che egli pronuncia il detto.
Cosa suggerisce questo episodio? Anzitutto ci dice che Gesù rifiuta di rientrare nelle logiche di opposizione binaria (a favore o contro), schierandosi piuttosto sempre a favore della persona, al di là delle etichette. Questo punto è già dirimente rispetto allo stile di stare in politica richiesto ad un cristiano ovvero al modo di porre le questioni che lo interessano o che intende discutere nell’agone politico, le quali devono essere affrontate all’insegna dell‘et et piuttosto che dell’aut aut.
Di fronte ad una questione di calcolo politico egli rinvia alla responsabilità dell’uomo rifiutandosi di sottoporre il nome di Dio come “targa” di una qualsiasi scelta politica.
Egli invita tuttavia ogni uomo a prendere posizione rispetto alla questione di Dio. In questa ottica il cristiano non deve fare l’errore di coinvolgere gli altri uomini a porsi la questione di Dio con la sua responsabilità di elettore o cittadino. Tale questione è messa in campo dal cristiano con i suoi fratelli nella fede, con i quali è chiamato a vivere ma che possono avere idee politiche o incarichi differenti tra loro. Questo passaggio è chiave per quanto ci interessa. Molto spesso infatti i cristiani che assumono posizioni intransigenti su questioni politiche lo fanno a partire da convinzioni religiose ovvero da un modo di concepire la vita umana di cui però sono chiamati ad essere anzitutto testimoni, insieme ai loro fratelli nella fede, prima che leader politici. Da qui l’incomprensione per quelle posizioni difese da politici che sono incoerenti quanto a testimonianza e che finiscono con depotenziarne la bontà: tali atteggiamenti infatti hanno un duplice effetto negativo. Finiscono per svalutare il contenuto della proposta e hanno l’effetto di alimentare la polarizzazione ideologica.
Ovviamente porsi la questione di Dio nella società ha delle implicazioni oggi come duemila anni fa. Il punto della questione in gioco è lo stesso: che cos’è l’uomo? Che cosa fa sì che l’essere umano sia un soggetto? Ciò significa che le posizioni assunte dal cristiano in politica devono saper rendere ragione della loro bontà in termini umani e non religiosi. Se non si è in grado di farlo, è impossibile pretendere che il mondo ci ascolti. Anche perché il mondo vive e si regola secondo un principio assai difficile da smontare: l’essere per sé e non per gli altri ovvero l’egoismo.
Restituire a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio rappresenta allora un sinonimo di contestazione del mondo e delle sue potenze: prendere le distanze dagli idoli che esso ci presenta o dalle idee preconfezionate che esso vorrebbe vederci difendere, ma anche prendere le distanze dai capri espiatori che esso ci addita affinché ciascuno di noi, insieme a tutti gli altri, li rigetti.
Da questo punto di vista dunque è responsabilità di ogni cristiano, in base alle diverse sensibilità di ciascuno, sottoporre a critica quelle idee che il mondo vorrebbe che tutti facessero proprie, secondo un disegno di omologazione e massificazione, diffuso all’insegna dell’apertura, della tolleranza e del politicamente corretto, dietro il quale si potrebbe celare tuttavia un ritorno alla barbarie. Questo disegno sarebbe non meno pericoloso di quello rappresentato dai fautori di un ritorno a ghetti identitari, promossi all’insegna di un comunitarismo settario, fondato su distinzioni e discriminazioni.
Gesù non rilascia programma politici, lasciandoci nell’incertezza rispetto a ciò che bisogna o non bisogna fare, ma pone un principio teologico di resistenza: restituire a Dio quello che è di Dio significa non fare di Dio un Cesare, cioè un dio politico o un potere che si impone alla maniera di Cesare. Restituire a Cesare ciò che è di Cesare significa non fare di Cesare un dio, cioè una istanza politica che determina il senso ultimo dell’esistenza.
Con questa logica è possibile superare il problema della collocazione politica del cristiano e quello della creazione di un partito politico ad hoc che lo possa rappresentare. Egli infatti è chiamato a cooperare per il bene della collettività mostrando di essere nel mondo ma non del mondo, rappresentando la sua contrarietà, in coscienza, rispetto alle posizioni in contrasto con la vita e in particolare di quella degli ultimi, dei poveri, degli indifesi. Al tempo stesso, non rinuncerà al dialogo con il mondo, giacché Gesù non ha mai rinunciato il confronto con nessuno ma ha preferito soccombere piuttosto che imporre la verità con la forza. Anzi proprio nel dono di sé egli ha mostrato la logica del Dio cristiano che i suoi discepoli sono chiamati a seguire ed imitare, mostrando al mondo la differenza cristiana.