La relazione con l’altro

La relazione con l’altro comporta necessariamente dei conflitti. Perché?

Anzitutto perché ciascuno di noi è un essere limitato. Siamo “tarati” per giudicare il mondo in base ai nostri occhi e l’interpretazione che diamo della realtà è frutto della nostra visione che è frutto dei nostri limiti culturali, ambientali e sociali. I social network hanno messo in evidenza in maniera lampante questo aspetto: siamo chiusi nella nostra “bolla” che propone i post che più ci piacciono, sui quali siamo invitati a mettere “like”, le nostre “amicizie” molto spesso non corrispondono a quelle reali ma siamo portati ad emettere commenti/giudizi su qualsiasi cosa. 

Byung-Chul Han filosofo sudcoreano nel testo “L’espulsione dell’altro” sottolinea come la nostra società tenda a scartare la differenza a vantaggio dell’uguale, l’altro disturba i meccanismi di un sistema che richiede sempre più velocità. Tutto ciò ha l’effetto di impoverire la vita e genera nuove patologie. L’inflazione dell’io imprenditore di se stesso genera angoscia e autodistruttività, l’esperienza e la conoscenza sono sostituite dalla mera informazione, le relazioni personali cedono il posto alle connessioni telematiche, si accumulano amici e follower senza mai incontrare veramente l’altro. 

Luigi Zoja, psicanalista, ne “La morte del prossimo” scrive: “Ama Dio e ama il prossimo, diceva il comandamento. Ma già per Nietzsche Dio era morto. E il prossimo? Nel mondo pre-tecnologico la vicinanza era fondamentale. Ora domina la lontananza, il rapporto mediato e mediatico. Il comandamento si svuota. Perché non abbiamo più nessuno da amare”.Le connessione mediatiche hanno reso costante il contatto ma eliminato la prossimità ed escluso i lontani, gli altri. 

Secondo il sociologo francese Alan Ehrenbergil diffondersi della depressione è una conseguenza del perduto rapporto con il conflitto”. La diffusione delle droghe e gli atti di autolesionismo sarebbero anch’essi l’esito della repressione degli stati conflittuali. Anche la mania del selfie sarebbe l’espressione del tentativo di riempire con il proprio viso una mancanza, un sentimento di vuoto. Anche la morte che è l’estrema conseguenza del conflitto è rimossa nella società contemporanea. Essa non appartiene più alla vita ma la mera fine della vita che occorre differire con ogni mezzo. 

Tutto ciò provoca in noi credenti uno smacco. Il conflitto infatti appare inconciliabile con la ricerca della pace che ogni cristiano dovrebbe perseguire in ogni contesto di vita. 

Il rischio di fronte al conflitto è duplice: quello della fuga o quello della violenza. Ma come cristiani abbiamo una responsabilità. Il cristiano è un pacificatore, un chiamato a fare pace tra sé e gli altri, in ogni circostanza. Sin dalla prima pagine della Bibbia, la parola di Dio ci parla di questa difficoltà della relazione con l’altro, a cominciare dal peccato originale che è frutto di incapacità di ascolto e di comunicazione tra Dio e l’uomo e tra l’uomo e la donna e poi con l’episodio del fratricidio operato da Caino nei confronti del fratello Abele. 

Queste dinamiche conflittuali riguardano tutti gli aspetti della nostra vita. Ogni gruppo, comunità, formazione sociale è tentata di rinchiudersi in se stessa, di essere escludente. Ma il conflitto colpisce anche all’interno rischiando di disgregare il gruppo. 

Non possiamo rifugiarsi nella preghiera o negli atti caritatevoli lasciando che il resto della nostra vita proceda normalmente ovvero resti immersa nei conflitti. La preghiera e la carità ci aiutano invece a trasformare le nostre vite affrontando i conflitti, facendosene carico. 

La prima cosa da fare è dunque riconoscere che i conflitti fanno parte della nostra vita, non solo materiale ma anche spirituale. Essi sono inevitabili per andare incontro a Cristo. Anche Gesù li ha vissuti pienamente nel suo percorso di fede. Non dobbiamo pensare che Gesù sia nato e formato come vero uomo per il fatto che sia Figlio di Dio. Anche lui ha conosciuto il conflitto, il distacco dai genitori, dalla famiglia, ha subito la persecuzione della sua comunità che fino a poco tempo prima lo osannava e infine ha subito il tradimento e l’abbandono dei suoi amici più stretti, i discepoli, fino a sentire l’abbandono di Dio sulla croce.

Il conflitto è dunque esperienza di un limite. La crescita della persona umana non è altro che un crescendo e un adeguamento fisico e spirituale ai limiti e ai conflitti che il mondo ci mette di fronte (parlo di conflitti in senso generico, ampio) nella misura in cui cresce la nostra libertà. Esistere significa ricevere l’esistenza da altri (prima di essere stati madri o padri, siamo stati figli e figlie) e al tempo stesso esistere significa anche provocare reazioni negli altri, i nostri genitori prima, i nostri figli oggi, i nostri amici, i coniugi ecc. 

Fuggire i conflitti significa rinunciare ad essere. Non si vive senza gli altri. Questo significa che non si vive senza lottare con loro. Allora è importante che ciascuno si senta immerso nella sua specifica parte di esistenza che gli è stata affidata dalla sua condizione di uomo, di donna, di madre, di padre, di figlio, di lavoratrice. Ciò che ci viene chiesto è affrontare i conflitti che viviamo e non pretendere di salvare il mondo intero. Se il cristiano si sottomette alla prova di questi conflitti imparerà l’umiltà della pace, si renderà conto che la pace non è qualcosa che appartiene al cielo. 

In questi conflitti il cristiano, mi preme sottolinearlo, non ha ricette già pronte ma attraverso la preghiera e la carità possiamo portare Dio nelle relazioni umane. Il cristiano è colui che ispira la sua vita a Cristo, fa di Gesù il suo unico maestro e per questo lo studio e la preghiera della parola di Gesù diventano uno strumento fondamentale per orientarci nella vita. 

L’obiettivo di questo esercizio, di questa “ascesi” spirituale è cercare di assumere lo sguardo di Gesù rispetto alle situazioni di vita che ci coinvolgono nel quotidiano partendo dal presupposto che quando incontriamo gli altri è Dio che ci parla e ci interpella attraverso di loro e attraverso di loro possiamo giungere alla riconciliazione con Dio e con gli uomini. Non ci sono altre strade, non ci sono scorciatoie per arrivare a Dio se non attraverso il prossimo. Per il cristiano parlare di Dio significa avere in mente Gesù, è lui che ci narrato Dio e ci invita a seguirlo per seguire il padre, nell’amore dei fratelli. 

La pace arriva da un assenso più profondo al compito che Dio ci ha dato. Assumere questa vocazione particolare, questi compiti famigliari, lavorativi, sociali che Dio ci ha affidato è il modo di mostrare la nostra fedeltà a Dio, di mettere a frutto i talenti che ci sono stati dati. Da questa fedeltà il mondo riconoscerà i cristiani, dai frutti e dalla gioia che Gesù ha promesso a chi sarà fedele alla sua parola. Questa è la differenza cristiana. Non abbandonare l’altro, né usargli violenza ma esercitare responsabilità e cura. Per fare questo occorre molto spesso la creatività che nasce appunto dalla custodia amorevole. 

Il conflitto oppone due interpretazioni che vengono messe in questione attraverso il confronto che permette a ognuno maggiore lucidità. Mettere in discussione la propria posizione per cercare di includere anche il punto di vista dell’altro accogliendolo ricercando soluzione creative al conflitto.

Nel conflitto siamo iniziati all’esistenza dell’altro, dobbiamo prendere atto che l’altro c’è e non possiamo né ignorarlo né eliminarlo. Qualcosa di indicibile si rende presente e nell’altro possiamo contemplare e rispettare lo stesso mistero che sia in noi che in lui. 

Agostino dirà “Io stesso sono diventato domanda a me stesso: chi sono? Che cosa sono?”. Sono un uomo posso rispondere ma che cosa sono solo Dio può saperlo con esattezza. Anche l’altro è figlio di Dio e mi parla del mio Dio. Mio Dio non perché mi appartiene ma perché io appartengo a lui insieme agli altri che mi aiutano a disvelare altre prospettive di quello stesso Dio. Ecco dunque l’impegno a cui anche Papa Francesco ci chiama per la fraternità universale che passa non da generici appelli ma dal farsi prossimo, alla stregua del “samaritano” che Gesù stesso ci indica ad esempio. 

Attraverso i conflitti Dio dunque spezza le sicurezze, dilata gli orizzonti e rinnova la fede. Dio è un idolo se lo identifichiamo con ciò che ci piace. Se lo comprendi non è Dio, dirà ancora Sant’Agostino. Egli è anche l’altro, anzi è l’Altro per eccellenza. In tutta la Bibbia non si racconta che questo: il farsi Altro di Dio. La brutalità dei conflitti ci insegna chi egli è, così come ce lo insegna la dolcezza della preghiera e la tenerezza dell’amore. 

Gesù vive con il Padre nell’unità ma al tempo stesso riceve la vita, la volontà, l’azione, la parola. Una misteriosa distanza vissuta fino all’agonia. Il padre gli fa violenza, Gesù fa violenza a se stesso accettando la volontà del padre come sua. A questo prezzo egli riconosce nel Padre colui dal quale non può essere separato, fino a decidere di donare la sua vita per amore. Per questo il Padre lo resuscita e lo pone alla sua destra, faccia a faccia con sé, dimostrando che non come la morte, come dice il salmo, ma più forte della morte è l’amore.

Questo percorso che Gesù compie nella sua vita lo compie grazie alla libertà che egli vive, da cui scaturisce la responsabilità per coloro che gli sono stati affidati, gli uomini e le donne, che definisce suoi fratelli. 

Gesù ci insegna la via di Dio con libertà. Ed è proprio questo a suscitare opposizione. L’autorità e la libertà di Gesù spiegano i conflitti che saranno determinati dalla sua parola e che lo porteranno da ultimo alla sua condanna. Questa libertà che è una libertà-per viene però declinata come libertà-da.

La prima forma di libertà vissuta da Gesù è nei confronti della sua famiglia, dei legami famigliari, della cellula umana e sociale primordiale. Ciò non significa che Gesù contesti la famiglia o non la valorizzi. Semplicemente egli afferma la precedenza della volontà di Dio e dell’annuncio del Regno rispetto ad ogni legame, a cominciare da quello famigliare. 

Nel Vangelo di Marco questo episodio è subito dopo l’istituzione, la chiamata dei discepoli. L’inizio della predicazione pubblica di Gesù scatena la sua famiglia che vorrebbe fermarlo. Gesù risponde in maniera eloquente con una parola che richiede semplicemente di essere accolta (Mc 3,31-35). 

Gesù sceglie una nuova famiglia che non è quella legata da vincoli di sangue. E’ una scelta atipica, costosa per l’epoca che si rivela fonte di libertà. Gli consente di mettersi totalmente a disposizione della sua missione: l’annuncio del Regno. Questa scelta netta chiede anche ai suoi discepoli. 

La libertà dalla famiglia, vissuta e richiesta da Gesù, dona la possibilità di sperimentare il centuplo nel tempo presente. Questo vale per il cristiano di ogni tempo, in qualsiasi stato di vita si trovi. Anche all’interno della famiglia sono sempre le esigenze del Regno a dover prevalere ma alla lunga l’esperienza di questa libertà si traduce in possibilità di vita gioiosa libera e liberante per coloro che il cristiano incontra nel suo cammino, a cominciare dai suoi famigliari. 

Fare la volontà di Dio è un’espressione che troviamo raramente nel vangelo. Essa è descritta in negativo, sappiamo cosa non è fare la volontà di Dio: incostanza di fronte alle tribolazioni, essere presi dalle preoccupazioni del mondo o subire la seduzione delle ricchezze. 

Gesù vede che il suo annuncio e le sue azioni sono stati accolti da coloro che lo hanno messo al centro della loro vita e in essi porteranno frutto. Seguire Gesù e insieme a lui imparare a fare la volontà di Dio ci rivela la possibilità di essere fratelli. La libertà dai legami famigliari ovviamente non significa libertà dai famigliari. Significa compiere tutto quel percorso che Gesù stesso ha fatto e con lei per prima fra le donne e gli uomini da sua madre Maria. Lei infatti che nel testo di Marco viene potremmo dire respinta in maniera dura dal figlio, la ritroviamo accanto al figlio sotto la croce insieme e nel Vangelo di Giovanni addirittura Gesù le affiderà il discepolo amato. Lei che qui è allontanata evidentemente ha compiuto un percorso che il suo ruolo di madre può avere facilitato ma che non è scontato. 

Questo percorso consiste nell’aver compreso e meditato le parole di quel Figlio che già dodicenne si rivela ai genitori in maniera misteriosa mentre lo cercavano preoccupati al ritorno da Gerusalemme “Non sapevate che devo occuparmi della cose del Padre mio?” (Lc 2,49) e che proprio nel dono totale di sé per amore degli altri, fino all’amore dei nemici, svelerà se stesso e il Dio che ha annunciato con gesti e parole per tutte la sua vita.

Riprendendo quindi in chiusura quanto dicevamo all’inizio in merito all’assenza di ricette da parte del cristiano nella soluzione dei conflitti, ciò che possiamo offrire è piuttosto uno stile cristiano, una differenza che nasce da un approccio di ascolto e di attenzione verso l’altro. “L’attenzione è la preghiera spontanea dell’anima” scrive Malebranche. L’anima è sempre in atto di preghiera. È in cerca. È un’orante invocazione dell’altro, totalmente Altro. Nella preghiera e nell’ascolto ci esercitiamo a questa attenzione, alla presenza misteriosa del totalmente Altro: “Dove due o tre sono uniti nel mio nome, io sarò con loro” (Mt 18,20) dice Gesù. Considerare la vita a partire dall’Altro è l’antidoto al mettere sempre davanti il nostro ego, imparare il linguaggio della responsabilità e imparare ad ascoltarlo.

L’ascolto richiede impegno, prossimità, non è possibile un ascolto a distanza, digitale; esso richiede tempo, un tempo che però è anche in grado di riconciliare e guarire. È proprio questo ciò di cui abbiamo bisogno, una rivoluzione del tempo che diventi tempo dell’ascolto, tempo per l’altro, tempo improduttivo, che a differenza del tempo per sé è in grado di costruire una comunità.

Bibliografia

M. De Certeau, Mai Senza l’Altro, Qiqajon, Magnano, 2000
L. Zoja, La morte del prossimo, Einaudi, Torino, 2009
B.C. Han, L’espulsione dell’Altro, Nottetempo, Milano, 2017

Guarire la piaga dell’indifferenza

Nel film Interstellar (2014) di Christopher Nolan una piaga che colpisce tutte le colture mette a repentaglio la vita dell’uomo sulla Terra. Dopo una serie di vicissitudini, il protagonista del film, l’astronauta Cooper, interpretato da Matthew McConaughey, riesce a dare una nuova speranza all’umanità grazie all’amore per sua figlia Murph da cui si è allontanato suo malgrado, quando era ancora piccola, proprio per salvarle la vita. L’umanità è costretta a lasciare la Terra per un nuovo pianeta, anch’esso abitabile, e lo fa grazie alla comunicazione che si instaura tra il padre e la figlia, nonostante le distanze siderali che li separano. I due riescono a mettersi in contatto ed a rincontrarsi superando i limiti imposti dallo spazio-tempo, grazie all’intervento di intelligenze superiori.

Per chi ha qualche dimestichezza con le Sacre Scritture, è impossibile non cogliere, già dal riferimento al termine piaga, il richiamo ai temi apocalittici, a cominciare da quelli che troviamo nella Torah, la Legge ebraica, che corrisponde ai primi cinque libri della nostra Bibbia. Mi riferisco in particolare alle 10 piaghe che colpiscono l’Egitto, secondo il racconto che troviamo in Esodo (Es capitoli 7-12). Qui si narra di come Dio, a causa della durezza di cuore del Faraone che non lascia partire il popolo ebraico, colpisce con una serie di calamità la terra delle piramidi. Alla fine il Faraone, spinto dal popolo egiziano, ormai stremato dalle piaghe, lasciare partire il popolo ebraico che, liberato dalla schiavitù grazie all’intervento divino, ricorderà e celebrerà questo evento ogni anno, nella Pasqua.

Ancora prima dell’Esodo, la sapienza dei racconti biblici presenti nel libro del Genesi ci narrano di come la gelosia e l’orgoglio tra gli uomini siano alla base dell’omicidio di Abele da parte del fratello Caino (Gen 4,9-11), a cui Dio stesso chiede conto: “Dov’è Abele, tuo fratello?“. Così nel racconto del Diluvio universale (Gen 7), sappiamo che a causa della malvagità dell’uomo sulla Terra, Dio si pentì di aver fatto l’uomo ma anche che grazie ad un solo uomo, Noè, che si mantiene integro e giusto, l’umanità avrà la possibilità di un nuovo inizio, sopravvivendo alla catastrofe.

Si è scritto molto sulla veridicità delle ipotesi fantascientifiche del film, alla cui realizzazione ha collaborato il premio Nobel per la Fisica Kip Thorne. Non c’è dubbio che il regista Nolan abbia voluto forzare alcune risultanze scientifiche per darci una spiegazione dell’esistenza che, trascendendo il tempo e andando al di là dei meri calcoli scientifici e di ciò che oggi possiamo conoscere o anche solo ipotizzare con un fondamento di verità, ci è offerta in chiave puramente affettiva. E’ l’amore che ci tiene in vita e consente all’umanità di sopravvivere, portandolo verso un nuovo Pianeta e forse ad una nuova civiltà.

Il finale del film è apparentemente mieloso ed ha fatto storcere il naso a coloro che avrebbero preferito maggiore rigore scientifico e meno spazio ai sentimenti. Tuttavia non vi è dubbio che l’effetto prodotto dalla pellicola sia particolarmente potente ed in grado di rappresentare in maniera credibile lo stretto legame esistente tra la sopravvivenza dell’uomo e della sua civiltà come la conosciamo oggi, con la sua capacità di cura verso l’ambiente ma anche per il prossimo. In sostanza, la sapienza umana che giunge dalla conoscenza scientifica e quella culturale, anche di ispirazione religiosa, sono in ultima istanza concordi sulla necessità di sviluppare quella che, richiamando l’espressione di Papa Francesco nell’Enciclica Laudato Sì, potremmo definire una ecologia integrale, che  comprenda sia le dimensione umane che sociali.

Occorre prendere atto che per affrontare in maniera efficace il problema ecologico è necessario tenere a mente della profonda connessione esistente tra i vari aspetti che lo definiscono e che tornano spesso nel Documento citato ad esempio: “l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita“.

Ma prima di andare oltre ed allargare il discorso a dismisura, vorrei tornare alla realtà quotidiana, fatta di notizie come questa che hanno ispirato questo articolo e che rappresentano un vero e proprio pugno nello stomaco.

Le piaghe della nostra società, già colpita e minacciata dall’inquinamento atmosferico e dai rischi globali derivanti dal cambiamento climatico ma anche dalle conseguenze di una diseguaglianza tra gli uomini sempre più marcata, trovano a mio avviso la loro radice nell’indifferenza. Gli effetti dell’espandersi della tecnologia nelle nostre vite ci ha reso interconnessi e solo apparentemente più legati. Eppure il più intenso legame tra gli uomini non potrà mai essere il risultato di un destino inevitabile del procedere del progresso tecnologico, come talune istanze del pensiero contemporaneo lasciano intendere. Esso rimane sempre e solo una responsabilità di cui ogni persona deve farsi carico. Sappiamo infatti che si può essere alienati pur vivendo connessi nella rete globale e che l’indifferenza e la distanza di ciascuno di noi dal resto della famiglia umana è spesso proporzionale all’incremento delle notizie che ci giungono continuamente da ogni parte del mondo. 

Come solo le canzoni sanno fare, a volte il richiamo dei loro testi può essere di stimolo per una riflessione diffusa. E’ il caso di due brani molto profondi, musicati da altrettanti giovani autori italiani di cui citiamo alcune parti ma che vale la pena leggere e ascoltare integralmente. Da un lato Correre di Anastasio:

Oso pensare a un pensiero gassoso, molecolare
Tra le molecole zero legame, basta guardare il tessuto sociale
Capisci perché stiamo fissi a giocare agli artisti ed a fotografare
Ci vogliamo affermare
Ma sbattiamo nel muro
Siamo chiunque e non siamo nessuno e io sono sicuro soltanto del fatto che sono insicuro
Passo le ore a aggiornare una pagina solo a vedere chi mi ama e chi no                                Per diventare quello che vuoi devi scordarti di quello che sei“.

Questo testo richiama la società liquida citata da Zigmunt Bauman, portandola nella sua estrema espressione da social network, in cui “l’amicizia” altro non è che un surrogato del nostro ego che rimane asservito ad un desiderio d’amore destinato a rimanere insoddisfatto.

A questa analisi lucida e impietosa fa da contro canto il testo di Abbi cura di me, di Simone Cristicchi:

Il tempo ti cambia fuori, l’amore ti cambia dentro
Basta mettersi al fianco invece di stare al centro
L’amore è l’unica strada, è l’unico motore
È la scintilla divina che custodisci nel cuore
Tu non cercare la felicità semmai proteggila
È solo luce che brilla sull’altra faccia di una lacrima
È una manciata di semi che lasci alle spalle
Come crisalidi che diventeranno farfalle
Ognuno combatte la propria battaglia
Tu arrenditi a tutto, non giudicare chi sbaglia
Perdona chi ti ha ferito, abbraccialo adesso
Perché l’impresa più grande è perdonare se stesso
Attraversa il tuo dolore arrivaci fino in fondo
Anche se sarà pesante 
Come sollevare il mondo
E ti accorgerai che il tunnel è soltanto un ponte
E ti basta solo un passo per andare oltre“.

Esso sembra quasi una necessaria evoluzione rispetto al testo di Anastasio. Qui l’io è decentrato per fare posto all’altro, nella cui relazione scocca la scintilla capace di illuminare di senso ogni momento della vita, anche quelli che apparentemente sembrano non averne.

Ecco che allora per combattere la piaga dell’indifferenza da cui scaturisce ogni male per l’uomo, siamo chiamati a rinnovare la nostra capacità di ascolto e di visione. Ciò fare sì che questa non indifferenza, questo prendersi cura dell’altro diffonda i suoi effetti benefici in forza di un contagio benigno, capace di contrastare il diffondersi dei mali che annientano l’uomo e il suo mondo. Recuperare uno sguardo attento al bisogno dell’altro è l’unico modo per smuovere il nostro cuore di pietra. E’ attraverso mezzi apparentemente poveri come la parola, la memoria e il dialogo, la compassione che possiamo tessere e mantenere saldi i legami nella nostra società liquida, in un lavoro quotidiano dal quale è impossibile ritirarsi, per il bene della società ma anzitutto per noi stessi.

Tutto ciò è il fondamento di quella tendenza dell'”essere per l’altro” che si oppone all’altra tendenza antropologica dell'”essere per se stessi”. Per chi ha fede, tutto ciò consiste nell’imitazione di Gesù Cristo. Egli, per il cristiano, è la parola definitiva su Dio. Non si può più parlare di Dio, parola fin troppo ambigua, senza parlare di Gesù che ce lo ha raccontato. Egli, nel suo incessante camminare tra gli uomini, fa della relazione con l’altro il primo passo, indispensabile, per la guarigione dell’uomo stesso, consapevole che l’amore non è innocente ma compromette e contamina. Come ci ricorda Bobin: “Quello che vuole, non per sé lo vuole. Quello che vuole è che noi ci sopportiamo nel vivere insieme. Non dice: amatemi. Dice: amatevi.

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