Il motto della Rivoluzione francese, “libertè, egalitè, fraternitè“, è ancora da attuare pienamente. Libertà, uguaglianza e fraternità sono termini complementari eppure non si integrano automaticamente tra loro. Tanta strada è stata fatta in tema di libertà e uguaglianza, negli ultimi due secoli, ma molto di più c’è da fare per realizzare la fraternità. Perché?
C’entra l’ambiguità del termine che è stato storicamente utilizzato in senso escludente, sia in ambito religioso che laico: sono fratelli i miei correligionari o i miei concittadini, gli altri sono stranieri.
Ciò ha fatto sì che l’attuazione della fraternità, intrappolata all’interno dei confini della propria fede o della Patria/Nazione, sia rimasta indietro nelle scena politica degli ultimi duecento anni mentre libertà e uguaglianza si rendevano protagoniste di una costante progressione dei diritti, individuali e sociali, ma anche di potenti contraddizioni. Senza la fraternità, la libertà diventa incomunicabilità e separatezza, trasforma la società in monadi incapaci di comunicare. Senza la fraternità, l’uguaglianza si trasforma in collettivismo ed egalitarismo.
L’attuale stato del mondo globalizzato induce l’umanità a prendere coscienza del fatto che può essere solo la fraternità, declinata in senso universale, a completare di significato i principi di libertà e uguaglianza. A rendere possibile questa declinazione, come suggerisce il sociologo francese Edgar Morin, non può che essere la comprensione di essere un’unica comunità di destino. È la fragilità e la mortalità dell’umanità in quanto tale a rendere possibile l’accesso nell’era della fraternità. Le crisi mondiali in atto all’inizio del Terzo millennio testimoniano che “nessuno si salva da solo”: la crisi della pandemia sanitaria, il cambiamento climatico, le minacce nucleari che tornano alla ribalta all’interno dei molti conflitti locali sono tutti elementi di un unico quadro.
Ma se libertà e uguaglianza possono essere assicurate o imposte per legge, così non è per la fraternità sebbene non manchino riferimenti che possano inquadrare questo principio all’interno di un percorso giuridico.
Il primo passo verso questa nuova tappa dell’era umana, verso il riconoscimento della fraternità universale, è stato fatto all’indomani della Seconda Guerra Mondiale quando il mondo, ancora scioccato dalle conseguenza del conflitto mondiale, dalle atrocità del genocidio e dai rischi di una escalation atomica, ha assunto il solenne impegno che apre la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, siglata nel dicembre del 1948: “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.”
La formulazione della dichiarazione, come risulta dal preambolo, non è la fotografia di un ordine già conseguito ma indica un ideale da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le nazioni. Ciò implica che l’assunzione in concreto del principio di fraternità, che vada oltre le mere petizioni di principio, porti con sé un impegno di responsabilità verso l’altro. Ma in quale misura questa responsabilità si può tradurre in vincolo giuridico, in un rapporto che diventa obbligo di intervenire a favore dell’altro, limitando, in un certo senso, la mia libertà?
E’ la stessa dichiarazione universale ONU a fornire la risposta laddove, operando un collegamento indiretto con l’art. 1, così recita all’art. 29, comma 1: “Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità.”
Questo collegamento sta ad indicare che nella misura in cui si riconosce il principio di fraternità tra tutti gli esseri umani sussiste anche un dovere in capo a ciascuno nei confronti della comunità, in quanto il pieno sviluppo della persona avviene attraverso la relazione con gli altri esseri umani.
A questo punto occorre considerare come, in ambito giuridico, si è sviluppato il discorso attorno alla natura umana e all’uomo in quanto “animale sociale”. Sono due le concezioni che hanno dominato negli ultimi secoli, presenti già nella storia del pensiero ma declinate nel mondo giuridico, in età moderna, da due illustri filosofi e pensatori.
La prima è risalente al filosofo britannico Thomas Hobbes (vissuto nel XVII secolo, in corrispondenza con la nascita degli Stati nazionali), fondatore del positivismo giuridico.
Egli nella sua opera principale, il Leviatano (1651), definisce lo stato di natura in cui vivono gli uomini come “bellum omnia contra omnes”, uno stato di guerra permanente e universale: uno stato in cui, non esistendo alcuna legge, ogni individuo verrebbe mosso dal suo più intimo istinto e cercherebbe di danneggiare gli altri e di eliminare chiunque sia di ostacolo al soddisfacimento dei propri desideri. Poiché solo la legge può distinguere torto e ragione, in sua assenza esisterebbe solo il diritto di ciascuno su ogni cosa (anche sulla vita altrui). Il prossimo sarebbe visto come un nemico e si vivrebbe una conflittualità perenne.
Per superare questo stato di natura discende la necessità di associarsi, di creare un legame sociale che ristabilisca l’ordine attraverso l’attribuzione di un potere, esercitato dallo Stato (il sovrano), cui tutti devono sottostare, pena l’applicazione di sanzioni.
Se il diritto è concepito secondo le teorie positivistiche per cui il diritto consiste essenzialmente ed esclusivamente in ciò che viene imposto dalla legge, al fine di mettere ordine alla guerra di tutti contro tutti, secondo una visione asociale della natura umana, risulta impossibile stabilire, attraverso il diritto, un legame sociale poiché lo Stato diventa il garante della libertà e della indipendenza dei singoli individui e il concetto di popolo risulta impensabile.
Contrapposta a questa visione, vi è quella dello stato di natura considerato non come dato presociale ma come ambito in cui l’uomo, caratterizzato da razionalità e socievolezza, è spinto proprio in forza di queste sue caratteristiche innate ad associarsi, a vivere in società secondo principi razionali, stipulando un patto, definito contratto sociale.
Secondo questa teoria, elaborata da Ugo Grozio (contemporaneo di Hobbes) il diritto naturale è il prodotto della ragione che fissa principi di carattere universale in base ai quali si potrà ordinare la società civile originata dal contratto.
Se il diritto è concepito come espressione di una natura umana che è costitutivamente sociale, destinata cioè a formarsi attraverso le relazioni con l’altro e non contro l’altro, esso non nasce come imposizione esterna di una autorità sovrana ma è frutto dell’ethos, della necessità di regolare qualcosa che fa già parte costitutiva dell’essere umano, allora è possibile pensare la fraternità e la presenza dell’altro non come limite alla libertà individuale ma come elemento di sviluppo della personalità di ciascuna persona.
In ogni caso, a prescindere dalla concezione della natura e del diritto che si assume come punto di partenza, la legge rappresenta il presupposto che impone o riconosce la presenza dell’altro, ponendo un limite alla pretesa totalizzante dell’io e della sua libertà.
Ma è solo la fraternità universale a fondare una concezione del rapporto tra persone e tra Stati in cui si riconosce la mutua dipendenza. Ogni persona umana, ogni Stato che appartiene alla comunità globale è qualcuno senza il quale il nostro essere uomini non è completamente sviluppato. Ogni persona ed ogni popolo sono appartenenti all’unica famiglia umana e ad unica comunità di destino che condivido la fragilità strutturale dell’essere uomo e del pianeta in cui vive. In ragione di ciò gli uomini hanno il compito di organizzare e improntare la struttura dei rapporti sociali e quelli tra Stati all’insegna della cura dell’altro, intesa come dovere inderogabile.
Questo discorso vale in ambito nazionale ma ovviamente in un mondo in cui “tutto è connesso” vale ancora di più in ambito globale. Ogni essere umano ha diritto a vivere con dignità e a svilupparsi integralmente, e nessun Paese può negare tale diritto fondamentale: non vi possono essere limitazioni di sorta al riconoscimento universale di questo status fondamentale di ogni persona umana.
